Parla Daniele Vicari, regista di Diaz
Come preannunciato in un commento di alcuni giorni fa, scritto in calce al post/recensione del film Diaz e in seguito all’intervento del regista Daniele Vicari, pubblichiamo oggi la trascrizione dell’intervista che lo stesso Vicari ci ha rilasciato alcuni giorni fa. Brevemente, la spiegazione dei due motivi principali che ci hanno spinto a contattarlo. Prima di tutto ci interessava avere una sua opinione non mediata sulla lunga serie di polemiche che hanno investito il film; in secondo luogo, ci premeva sottoporre all’attenzione di Vicari alcune domande e riflessioni che sono emerse dal dibattito nato dopo la nostra recensione. Da qui, dunque, l’esigenza di contattarlo, capire e soffermarci anche su alcune spiegazioni inedite e sui retroscena del film. Chiudiamo questa breve introduzione ringraziando ancora Daniele e augurandoci di poter presto allargare questo tipo di riflessioni ad un pubblico molto più ampio di quello che frequenta questo blog.
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11 anni fa la Diaz. Oggi un film che ne ricostruisce dettagliatamente le terribili sequenze. Il paese ha atteso troppo oppure ancora non è maturo per un impatto del genere che riapre ferite mai lenite?
«Cominciamo col dire che 11 anni sono forse troppi per riaprire un fatto di questa portata. Dopo la sentenza di I grado del novembre 2008 praticamente si è smesso di parlare di Genova, della Diaz e in un certo qual modo anche di Carlo Giuliani. Dal canto mio, è dal giorno dopo i fatti del G8 che tento di strutturare la sceneggiatura per dare voce a quanti non la ebbero in quelle giornate. Il primo progetto di sceneggiatura risale al 2003, ed era semplicemente il tentativo di scrivere la storia di Edoardo Parodi, un amico di Carlo Giuliani che proprio la mattina del 20 luglio scelse di non rimanere a Genova; la sera seppe della morte dell’amico, tornò a Genova frastornato, pieno di colpe. Passò mesi di forti depressioni e poi, a 6 mesi dalla morte di Carlo, il 2 febbraio 2002, morì di miocardite acuta. Un fatto insolito per un ragazzo di 22 anni; l’autopsia svelò in seguito tracce di gas CS, gli stessi usati nelle giornate genovesi…»
Il tuo film si è caratterizzato per avere attirato forti polemiche, su tutte quella con Vittorio Agnoletto che accusava te e Procacci di collusione con gli apparati di PS.
«La polemica di Agnoletto, anzitutto, non è nuova. Appena si seppe dell’uscita del film (maggio 2011) già cominciò una sorta di tiro a bersaglio nei confronti miei e di Procacci, poiché durante un’intervista al Festival di Cannes Procacci dichiarò che non avrebbe avuto problema alcuno a far leggere la sceneggiatura ai vertici della PS, visto che il nostro è sempre stato un lavoro alla luce del sole. Una polemica sterile, quindi; ipotesi tra l’altro suffragata dal fatto che per le divise, i mezzi e tutti i dettagli che riguardano la Polizia bisogna chiedere autorizzazione ai suoi capi, e nelle regole d’ingaggio di questo do ut des vi è anche la messa a disposizione della sceneggiatura del film. Nulla da nascondere, dunque, tantomeno il nostro sdegno per quella sospensione dei diritti democratici che ancora oggi segna l’incedere di tante persone.»
Rimaniamo nel campo delle polemiche mosse al film. È stata palesata una forte acredine dovuta all’omissione dei nomi dei responsabili e dei mandanti politici della mattanza alla scuola Diaz. Col senno di poi è stato un errore oppure rimani convinto della scelta fatta?
«Beh, diciamo che il contraddittorio non si nega a nessuno, tantomeno il diritto di manifestare il proprio dissenso o la propria amarezza per alcuni dettagli specifici. Ritengo, però, che non si sia colto in pieno il significato politico di questa scelta. Proviamo ad essere schematici. In primis, la bufera che avrebbe anticipato l’uscita di un film con nomi e cognomi di chi, in quelle stanze, aveva optato per la mattanza alla Diaz avrebbe significato ancorare l’intera pellicola ad una cronaca, ad una ricostruzione che avrebbe visto nella citazione di De Gennaro, Fini e Fournier l’apice del film, indebolendo il resto della sceneggiatura e la denuncia che questa, neanche troppo tra le righe, gridava. In secondo luogo, il dovere di citare alcuni nomi tra i mandanti politici dell’operazione avrebbe imposto, per dovere di correttezza, l’uso di nomi e cognomi di almeno altre 130 persone che sono state i protagonisti (non certo secondari) di quanto accadde nella Diaz. E da questo punto di vista potrebbe anche darsi che non tutte le persone chiamate in causa avrebbero dato il consenso a rivivere, seppur indirettamente, questa vicenda; il che avrebbe inficiato la costruzione, se non addirittura la messa in onda, del film. Ultimo motivo, e forse più importante, è quello legato alle vicende processuali nate in seguito al primo grado di giudizio, nel novembre 2008. Bisogna infatti ricordare che è tuttora in discussione l’effettivo coinvolgimento dei capi della polizia; il prossimo giugno la Cassazione dovrà esprimersi in merito e probabilmente anche questa vicenda giudiziaria, come le altre che hanno interessato i fatti del G8 genovese, si risolverà con una deresponsabilizzazione degli apparati politici e militari. Questo, in prospettiva e al momento di scegliere o meno sull’utilizzo dei nomi, significherebbe che la ricostruzione da me proposta nella pellicola non troverebbe una fondatezza nelle carte giudiziarie; e nel caso avessimo usato i nomi dei vari De Gennaro, Fini e Fournier, ciò avrebbe implicato l’immediato ritiro del film dalle sale cinematografiche e la conseguente impossibilità, dunque, di raccontare una verità che deve essere resa nota nella sua cruda integrità».
Anche la “questione” di come si è trattato l’argomento Black Bloc ha fatto molto discutere. In particolare, in una delle scene finali, sembra quasi si voglia dare credito all’ipotesi che vedeva la giustificazione politica del massacro della Diaz nella presenza di appartenenti al blocco nero tra le mura della scuola.
«Anche in questo caso si preferisce guadare il dito e non la luna. Il film è girato in modo da dare dei precisi segni. Ad esempio Etienne (uno dei ragazzi del blocco nero, ndr) è convinto che la mattanza della Diaz fosse stata architettata per scovare lui ed i suoi amici; ma la sua compagna, Cecìle, non crede a questo pretesto politico, anzi è lei a scrivere sul muro della scuola Don’t clean up this blood, ovvero Non lavate questo sangue – impersonando dunque la stragrande maggioranza di quelli che, nei fatti della Diaz, hanno solo visto il brutale volto dello Stato. E poi, avendo avuto già modo di sentire questa obiezione mi piacerebbe chiedere a chi tanto la sbandiera: e se così fosse – ovvero che la polizia cercava i Black Bloc e questo era il reale motivo del blitz alla Diaz – possiamo comunque ritenere questa vergogna più giustificabile? Credo che faccende di una tale delicatezza, anziché essere usate come semplici grimaldelli per una sterile polemica, debbano essere discusse e problematizzate; e questo è stato il mio impegno.»