Piazza Fontana, la strage è di Stato 2/4
Come abbiamo scritto qualche giorno fa il 12 dicembre ricorre l’anniversario di Piazza Fontana. Abbiamo ritenuto fosse utile realizzare, soprattutto per i compagni più giovani, una serie di approfondimenti che servissero sia come “riassunto” di quanto accadde prima e dopo di quella che pè stata indicata come la madre di tutte le stragi, sia come possibile traccia per ulteriori approfondimenti. Forse l’abbiamo presa un po alla larga, ma era necessario inquadrare il contesto storico che determinò quei fatti. La prima parte dell’articolo la trovate qui.
2/ E poi, e poi, e poi… ci chiamavano Teddy Boys
Nei primi mesi del 1960, quando ancora non si era spenta l’eco della vittoria della rivoluzione cubana, si assiste ad una serie di impressionanti agitazioni popolari nelle più lontane parti del mondo. Il 26 aprile una rivolta in Corea provoca la cacciata di Syngmann Ree, il 27 maggio cade il regime reazionario di Menderes in Turchia, il 10 giugno il portavoce del presidente nordamericano Eisenhower viene assalito da manifestanti giapponesi ed è costretto a scappare in elicottero. La popolazione locale è in rivolta contro la firma dell’accordo nippo-statunitense e la protesta spinge il governo di Tokio a chiedere ad Eisenhower di rinunciare ad alla visita programmata per ratificare l’accordo stesso. Nonostante questo il primo ministro Kishi sarà comunque costretto a dimettersi da un ondata di scioperi senza precedenti che paralizzerà il paese.
Anche nella politica italiana si assiste ad una ventata di nuovo, soprattutto all’interno della Democrazia Cristiana, dove si rafforza la “sinistra” che ha la sua base sociale nei lavoratori cattolici ed è legata alla nuova dirigenza industriale del settore pubblico rappresentata dal presidente dell’ENI, Enrico Mattei. Inizia a farsi strada nella borghesia italiana l’idea di una possibile apertura dell’area di governo al PSI. A spingere in tal senso contribuirà anche il mutato quadro internazionale. Il capitalismo per alimentare il proprio boom necessita di una forte politica di aumento salariale e tanto la destalinizzazione portata avanti da Krusciov in URSS quanto l’elezione di Kennedy negli USA rappresenteranno, anche simbolicamente, la possibilità di nuovi equilibri geopolitici più favorevoli. Kennedy sosterrà l’apertura a sinistra puntando all’isolamento del PCI e alla normalizzazione del PSI. Ed è in questo quadro che si spiegano i finanziamenti mirati della CIA alle forze trainanti di questi nuovi equilibri: la corrente morotea nella DC e quella autonomista nel PSI.
Tutto questo, però, nel marzo del 1960 appartiene ancora al futuro. Anzi, proprio il timore di un allargamento a sinistra spinge il segretario del Partito Liberale Italiano, Giovanni Malagodi, a revocare il proprio appoggio al governo di Antonio Segni, aprendo così una crisi che durerà per trenta giorni e che porterà sulla poltrona di primo ministro il democristiano Fernando Tambroni.
Ripercorriamo brevemente la cronaca di quei giorni. Dopo il ritiro dell’appoggio da parte del PLI, Giovanni Gronchi, presidente della Repubblica, riaffida ad Antonio Segni l’incarico di formare un nuovo governo che, però non riesce a trivare in parlamento i voti sufficienti ed è costretto a passare la mano. Gronchi, allora, gioca la carta Tambroni. Con i voti del MSI il parlamentare democristiano riesce a formare una maggioranza di centro-destra, ma viene invitato a dimettersi dal suo stesso partito per il significato implicito di un simile governo. Anche Tambroni, dunque, presenta le dimissioni e mentre i missini, per ritorsione, tolgono la fiducia a tutte le amministrazioni di centro-destra presenti in Italia, la palla passa ad un altro democristiano, Amintore Fanfani. Questi, però, subisce forti pressioni da parte del Vaticano che è fermamente contrario al varo di un governo di centrosinistra. Così anche Fanfani è costretto alle dimissioni. E’ il caos. Da più parti si invoca lo “stato di necessità” e, con una decisione che non ha precedenti nella storia repubblicana, Gronchi torna a rivolgersi a Tambroni così che, puntualmente sostenuto dal Movimento Sociale, riesce finalmente a insediare il suo governo.
L’operazione politica vede il supporto dei più importanti organi di stampa, ma, di contro, determina anche un ribellione generalizzata nel “Paese reale” che non accetta la presenza di neofascisti al governo. Non a caso il 29 aprile, appena eletto, il primo atto di Tambroni consiste nel diramare a tutti i questori e i prefetti della penisola l’ordine di impedire rigorosamente ogni manifestazione contraria al proprio governo. Non passa neppure un’ora dalla diramazione dell’ordine che la polizia disperde a Milano e provincia dei cortei di giovani che manifestano chiedendo un governo antifascista. I giorni seguenti saranno una sequela di manifestazioni di sinistra vietate, di manifesti censurati e tipografie perquisite. Paventando la “preparazione di un complotto comunista internazionale del quale neppure il Sifar aveva notizia” Tambroni organizza al Viminale un apparato informativo parallelo a quello militare, che inizia a sorvegliare numerosi uomini politici e persino alcuni suo compagni di partito. Il neo presidente del consiglio eredita inoltre, dal suo predecessore e collega di partito Mario Scelba, un vero e proprio “esercito” preparato per la repressione di classe. Negli anni caldi che vanno dal 1948 al 1950 la celere forgiata da Scelba aveva dato prova di sicura affidabilità scatenando una repressione senza precedenti nelle fabbriche e nelle campagne italiane con un bilancio impressionante: 62 morti, 3126 feriti e 92169 arrestati di cui 19306 condannati a complessivi 8441 anni di carcere. Come sia stato possibile che lo Stato nato dalla Resistenza si sia poi rivoltato contro chi, in prima persona, aveva combattuto per la liberta dell’Italia è lo stesso Scelba a spiegarlo candidamente in un’intervista rilasciata a Federico Orlando nel 1988: < Allontanai con buonuscite o con trasferimenti nelle isole, per tutto il 1947, gli ottomila comunisti infiltratesi nella polizia e assunsi diciottomila agenti fidatissimi. Il ministro della difesa Facchinetti mi fu molto vicino. Si diceva che i comunisti avessero un piano insurrezionale, il famoso piano K, che sarebbe scattato nell’autunno del 1947 dopo la partenza degli americani. E io che a quel piano non ho mai creduto, mi comportai come se effettivamente ci fosse. Perciò adottai le mie contromisure, sulle quali ritengo di dover ancora mantenere il riserbo. Posso solo dire che non avremmo ceduto il potere, ricordai a Togliatti che il coltello dalla parte del manico l’avevamo noi. Posso aggiungere che non mi limitai a reclutare forze di polizia affidabili, ma creai una serie di poteri per l’emergenza, una rete parallela a quella ufficiale, ma ad essa superiore, che avrebbe assunto automaticamente ogni potere in caso di insurrezione, lasciando che questa si dirigesse contro i poteri formali>(1). Insomma, Tambroni poteva godere di un dispositivo di polizia e di intelligence che all’epoca era interamente in mano a funzionari di formazione fascista. Dei 64 prefetti di primo grado, 64 prefetti non di primo grado e 241 viceprefetti, soltanto 2 prefetti di primo grado non provenivano dall’ingranaggio fascista. Dei 135 questori e 139 vicequestori, che avevano tutti iniziato la loro carriera sotto il fascismo, solo 5 vicequestori avevano avuto rapporti con la Resistenza. Dei 606 commissari capo e 1030 tra commissari capo, commissari aggiunti e vice commissari, anche se molti erano entrati in polizia dopo la Liberazione, solo 34 avevano avuto qualche Rapporto con la Resistenza (2). Paradossalmente se nell’epoca del fascismo era possibile avere a che fare con funzionari di formazione prefascista, negli anni 50 e 60 questo era quasi impossibile.
D’altro canto anche la biografia politica di Tambroni parlava chiaro, e raccontava di come durante il fascismo il futuro presidente del consiglio, già segretario provinciale del Partito Popolare, non esitò ad abiurare per iscritto alle proprie idee e ad aderire al regime. Si legga, a tal proposito, la dichiarazione scritta il 13 novembre del 1926 ed indirizzata al triumviro federale di Ancona, il ragionier Adenati: <Il sottoscritto sul suo onore di cittadino e di italiano di abiurare la sua fede politica nel disciolto Partito Popolare e di disinteressarsi di qualsiasi attività che sia comunque contraria con il volere ed il pensiero del regime fascista, che rappresenta oggi la nazione risorta nella coscienza di se stessa. Quanto oggi il sottoscritto afferma è la conclusione logica del suo atteggiamento politico di più di un anno a questa parte, atteggiamento alieno da ogni velleità di pensiero e di opere pubblicamente o privatamente esplicate ed espresse. Dichiara inoltre che i dettami del reg