Piazza Fontana, la strage è di Stato 4/4

Piazza Fontana, la strage è di Stato 4/4

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Termina, con questo quarto capitolo, la ricostruzione della strage di Piazza Fontana. Questa volta ci concentriamo sui depistaggi, le insabbiature e le bugie che hanno fatto diventare la ricostruzione giudiziaria di quei fatti la pagina più grottesca e orribile della storia recente del nostro Paese. Fra breve, come abbiamo detto, trasformeremo questo lavoro in un dossier in pdf scaricabile in un’apposita sezione del blog, nel frattempo potrete trovare le parti precedenti qui, qui e qui.

Alle 16.37 di venerdì 12 dicembre 1969, un ordigno di elevata po­tenza squassava la Banca Nazionale dell’Agricoltura, in piazza Fontana, al centro di Milano. Si conteranno immediatamente 14 morti e 87 feriti. I decessi sa­liranno a 16 entro il 2 gennaio. A completare il tragico bilancio, si aggiungerà, anni dopo, una diciassettesima vittima, morta a seguito delle ferite. Prima ancora, alle 16.25, sempre a Milano una bomba inesplosa era stata trovata alla Banca Commerciale Italiana, in piazza della Scala. Il perito Teo­nesto Cerri nonostante sapesse quanto era successo a Piazza Fontana diede l’ordine di far brillare quell’importantissimo reperto cancellando delle prove essenziali senza neanche consultare il titolare delle inda­gini, il giudice Ugo Paolillo. Lo stesso 12 dicembre, a Roma, esplodevano in rapida succes­sione altri tre ordigni. Il primo alle 16.55 in un sottopassaggio che, all’interno della Ban­ca Nazionale del Lavoro, in via San Basilio, collegava la sede ad al­tri uffici. Si conteranno 14 feriti tra i dipendenti. Il secondo e il terzo all’Altare della Patria, in piazza Venezia, ri­spettivamente alle 17.22.

 

Immediatamente dopo le prime notizie sulla tremenda esplosione, che aveva devastato la Banca Nazionale dell’Agricoltura, le indagi­ni puntarono a sinistra. Il copione sembrava già scritto. La sera stessa del 12 dicembre il commissario Luigi Calabresi dell’ufficio politico della Questura di Milano, conversando con Giam­paolo Pansa, all’epoca inviato de La Stampa, esternò subito la pro­pria convinzione che le responsabilità dovessero essere addebitate ai gruppuscoli di estrema sinistra. «Estremismo» disse «[…] è in que­sto settore che noi dobbiamo puntare. Estremismo, ma estremismo di sinistra […]. Anarchici, “cinesi”, operaisti». L’opinione di Calabresi non era però isolata. Il questore di Milano Marcello Guida asserì senza mezzi termini che bisognava col­legare la strage agli attentati del 25 aprile per i quali erano stati tratti in arresto alcuni anarchici. Il prefetto Libero Mazza telegrafò in­vece al presidente del Consiglio Mariano Rumor: «Ipotesi attendi­bile che deve formularsi indirizza indagini verso gruppi anarcoidi aut comunque frange estremiste». Dal canto suo la Democrazia Cristiana milanese invocò «misure d’emergenza» contro i «cinesi» e i loro complici annidati nel Pci. Nei tre giorni successivi, secondo una relazione alla Camera del mi­nistro dell’Interno Franco Restivo, ben 244 furono le persone ferma­te, 367 le perquisizioni domiciliaci e 81 le irruzioni nelle sedi di gruppi e organizzazioni politiche, quasi esclusivamente di sinistra. Nella foga ci si dimenticò del covo romano di Avanguardia Nazionale. Ma il fatto più grave fu indubbiamente rappresentato dalla con­vocazione al Quirinale, da parte del presidente della Repubblica Giu­seppe Saragat, del ministro dell’Interno e di tutti i comandanti del­le forze di polizia, per valutare l’opportunità di proclamare lo «sta­to di pericolo pubblico», secondo gli articoli 214, 215 e 216 del Te­sto unico delle leggi di pubblica sicurezza, in base ai quali i prefet­ti potevano ordinare «l’arresto e la detenzione di qualsiasi persona» e il ministro dell’Interno «emanare ordinanze anche in deroga alle leggi vigenti». L’Observer, il 14 dicembre, parlò per la prima volta di “strategia della tensione”, accusando direttamente Giuseppe Saragat di inco­raggiare «i neofascisti ad andare verso il terrorismo». Eppure, già il 13 dicembre, il Sid era in possesso di informazio­ni assai precise sugli autori della strage, al punto da indicare, in una nota, Stefano Delle Chiaie e Mario Merlino quali responsabili de­gli attentati di Roma, eseguiti su ordine di Yves Guérin Sérac. Nell’appunto, redatto sulla base delle informazioni raccolte dal maresciallo Gaetano Tanzilli, si fece anche esplicito riferimento all’infiltrazione tra le fila anarchiche, in specifico nel circolo «22 mar­zo», da parte di esponenti di Avanguardia nazionale con il proposi­to di addebitare al movimento libertario la responsabilità delle azio­ni terroristiche. Le notizie provenivano da Stefano Serpieri, militante di Europa Civiltà, come tantissimi altri confidente dell’ufficio politico della que­stura e del Sid. Il rapporto venne inviato alla sezione I del controspionaggio di Roma. Passò attraverso diverse mani. Certamente il capitano Mario Santoni, il capitano Antonio Agrillo, il maggiore Antonio Ce­raolo, il colonnello Giorgio Genovesi, per finire al colonnello An­tonio Cacciuttolo, capo del raggruppamento. Lungo questo percorso, fino alla sua definitiva stesura, il 17 di­cembre, la nota fu rimpolpata e rimaneggiata. Nell’ultima versione, giunta sulla scrivania del colonnello Federico Gasca Queirazza, re­sponsabile dell’ufficio D del Sid, la ragione per cui Mario Merlino si era infiltrato nel «22 marzo» era scomparsa, ma soprattutto Yves Guérin Sérac e Robert Leroy, da notissimi neonazisti (avevano ad­dirittura combattuto nelle Waffen-SS, con tanto di condanna per col­laborazionismo a 20 anni di lavori forzati per Leroy) erano stati tra­sformati in pericolosi anarchici. Fu il primo depistaggio da parte del Sid. Ne seguiranno molti altri.

 

Se a Roma Mario Merlino assunse il ruolo del provocatore e del te­stimone d’accusa, a Milano fu Enrico Rovelli a svolgere questo compito. Finto anar­chico, futuro imprenditore musicale, Rovelli lavorava da tempo alle dipen­denze dell’Ufficio Affari Riservati e poche ore dopo la strage portò, a sua volta, i poliziotti sulle trac­ce di Valpreda. Quasi contemporaneamente all’arresto di Valpreda, lo stesso lu­nedì mattina un tassista, Cornelio Rolandi, confidò a un passegge­ro, il professor Liliano Paolucci, di aver trasportato «l’uomo che ha fatto saltare la Banca dell’Agricoltura». Raccontò di aver caricato a bordo della sua Seicento multipla, in piazza Beccaria, circa alle 16.00 del 12 dicembre, poco prima del­la strage, un passeggero che gli chiese di essere trasportato in piaz­za Fontana, distante solo pochissimi metri. Che il cliente scese, en­trò in banca con una pesante borsa nera, da cui ne uscì senza, 40­-50 secondi dopo, facendosi infine portare in via Albricci. Paolucci avvisò immediatamente la polizia dando il numero del taxi. Subito dopo, alle 9.30, Rolandi comparve comunque di sua spontanea volontà davanti al nucleo investigativo dei carabinieri. La versione sottoscritta nel verbale fu leggermente diversa da quella riferita a Paolucci. Il tragitto descritto non fu più lo stesso. Raccontò infatti di essersi fermato, come richiestogli, in via Santa Tecla. Che il cliente scese frettolosamente sbattendo la portiera e svoltò per via San Clemente. Lo vide ritornare dopo 3-4 minuti. In questo racconto la sosta davanti la banca non c’era più, l’uomo non fu più visto entrare e anche il tempo di attesa risultò dilatato. Un comportamento assai singolare. Per compiere 135 metri, la distanza tra piazza Beccaria e l’ingresso della Banca Nazionale dell’Agricoltura, il presunto attentatore sarebbe salito su un’auto pub­blica, facendo di tutto per essere visto e ricordato, compiendo poi a piedi 234 metri, da via Santa Tecla alla banca e ritorno. Oltre tut­to il prezzo della corsa, 600 lire, non risultò corrispondere al tragit­to e alla sosta dichiarati, ma, date le tariffe dell’epoca, a 14 minuti di sosta o a un percorso di 2 chilometri e 800 metri. Una testimonianza, fin da subito, avvolta da moltissime ombre. Rolandi in un’intervista a “Gente” dichiarò, per altro, di essersi pre­sentato ai carabinieri il giorno successivo agli attentati. Il Corriere della Sera pubblicò che aveva già detto tutto a un agente in servizio in piazza Fontana la sera stessa del 12 dicembre. A Rolandi, portato in questura, al cospetto del questore Marcel­lo Guida fu mostrata una sola foto, quella di Pietro Valpreda. «Mi è sta­ta mostrata una fotografia» disse «che mi è stato detto doveva esse­re la persona che dovevo riconoscere». E in effetti riconobbe, il 16 dicembre, come suggeritogli, Valpre­da a Roma al Palazzo di giustizia, tra cinque persone, affermando «Bè… se non è lui, qui non c’è!». Ma quasi nulla tornò nel riconoscimento. Il tassista descrisse il passeggero alto 1,73-1,74 quando Valpreda era alto 1,66; non notò nulla di particolare nei capelli, quando l’anarchico era quasi un ca­pellone; parlò di un individuo che si esprimeva «con un italiano cor­retto […] senza particolari inflessioni», quando invece una delle caratteristiche di Valpreda, che subito si notavano, era l’erre arrotata. Mercoledì 17 tutti i giornali sbatterono “il mostro” Valpreda in prima pagina. In questa indegna gara il Corriere d’Informazione riuscì a brucia­re tutti intitolando, accanto alla foto dell’anarchico: «La furia della bestia umana». Cornelio Rolandi, dal canto suo, intascò 150 milioni della taglia. Morirà repentinamente il 16 luglio del 1970 di “polmonite ful­minante senza febbre”.

 

Verso la fine di dicembre, sulla base di un cavillo giudiziario, l’in­chiesta venne sottratta a Milano e trasferita a Roma, dove erano scop­piate le altre tre bombe. Il procuratore generale Enrico De Peppo trasmise gli atti che finirono nelle mani del pubblico ministero Vit­torio Occorsio. Contemporaneamente allo svolgersi di questi avvenimenti, la sera del 15 dicembre 1969, un giovane democristiano di Maserada sul Pia­ve, Guido Lorenzon, insegnante di francese, aveva messo al corrente l’avvocato Alberto Steccanella di alcune confidenze ricevute da un suo vecchio amico, Giovanni Ventura. Costui gli aveva parlato dell’esistenza di un’organizzazione eversiva impegnata nell’instaurazione di un regime sul modello della Re­pubblica di Salò, della personale disponibilità di un deposito di ar­mi, e di aver partecipato nel maggio 1969 alla collocazione di un or­digno a Milano in un edificio pubblico. Oltre a ciò di aver finanziato gli attentati sui treni dell’agosto precedente, ma soprattutto di essere a conoscenza di molti elementi riguardo le bombe di Roma e la strage alla Banca Nazionale dell’Agricoltura. Giovanni Ventura aveva infine mostrato a Lorenzon un temporizzatore alimentato da una batteria, già predisposto per un attentato. L’avvocato Steccanella chiese a Guido Lorenzon di preparare un memoriale. Il 27 dicembre gli appunti finirono al procuratore del­la Repubblica di Treviso. Il 31 il giovane insegnante di francese si presentò al pubblico mi­nistero di Treviso Pietro Calogero. Il 12 febbraio 1970, dopo aver subito fortissime pressioni da par­te di Giovanni Ventura e Franco Freda, affinché ritrattasse le sue di­chiarazioni, Guido Lorenzon venne sentito dal giudice istruttore di Roma Ernesto Cudillo. A conclusione di un tormentato iter, in cui furono anche segre­tamente registrate, grazie allo stesso Lorenzon, alcune conversazio­ni, il 9 aprile 1971, il giudice istruttore di Treviso Giancarlo Stiz de­cise l’arresto di Giovanni Ventura, Franco Freda e Aldo Trinco per associazione sovversiva. Un secondo mandato di cattura venne emes­so, il 30 giugno 1971, questa volta per gli attentati del 25 aprile e dell’agosto sui treni, oltre che per il reato di ricostituzione del par­tito fascista. Gli indiziati vennero comunque rilasciati poco dopo, il 12 lu­glio 1971. La svolta il 5 novembre, quando a Castelfranco Veneto, nella sof­fitta della casa di Giancarlo Marchesin, un esponente locale del PSI, alcuni operai, durante lavori di ristrutturazione, ritrovarono un de­posito di armi. Mitra, pistole e cartucce, più un drappo nero con un fascio l