Post-democrazia elettorale
Al di là dei singoli vincitori e sconfitti di queste elezioni comunali, a imporsi è il drastico calo dell’affluenza. Un dato talmente consolidato da risultare ormai strutturale. Eppure (anche) questa volta interessante da rilevare. Da un decennio tutta la politica italiana si esibisce nel tentativo di cambiare la legge elettorale proporzionale per tornare a un maggioritario di volta in volta condito col premio di maggioranza o col doppio turno sul modello francese. Un tentativo sovente posticipato per opportuni calcoli politici contingenti (oggi è la paura di un governo Cinque stelle, ieri la debolezza di Berlusconi o del centrosinistra). Il modello agognato è proprio quello delle elezioni comunali: quando l’elettore conosce personalmente chi scegliere; quando l’elezione determina immediatamente un vincitore e uno sconfitto; quando, infine, la vittoria anche per un solo voto garantisce una inscalfibile super-maggioranza governativa, ecco che lo stesso elettore torna ad affezionarsi alla politica. La débâcle elettoralistica di ieri spazza via la sequela di boiate ideologiche su cui si fonda il delirium governista proposto a media unificati da un trentennio. Ma la rapida sequenza elettorale francese e italiana certifica anche altro. Nei sistemi a doppio turno – in Francia come nelle comunali italiane – al ballottaggio si reca ormai meno della metà della popolazione. Divisa ulteriormente tra i due candidati, il sistema elettorale a doppio turno determina una maggioranza assoluta (50%+1, quando va bene) per il candidato votato da un 15-20% del corpo elettorale. Questa dinamica, piuttosto tipica negli Stati uniti ma tutto sommato recente in Europa, viene liquidata nel dibattito mainstream come irrilevante o fisiologica. Per alcuni segnerebbe addirittura il grado di maturità a cui sarebbe giunta la democrazia europea, una democrazia non più viziata dalla politicizzazione di massa e quindi libera da vincoli ideologici. Anche qui però l’abbaglio interpretativo delle classi dominanti appare lampante addirittura dal loro punto di vista. In altri termini, non è necessario essere comunisti per cogliere il vulnus posto alla base del progressivo distacco tra la maggior parte della popolazione e la partecipazione elettorale.
La distorsione colossale tra la rappresentatività delle assemblee elettive e l’urgenza di “governabilità” delle classi dominanti può risolvere un problema nel breve (brevissimo) periodo, ma crearne di più profondi nel medio-lungo. Nel breve periodo infatti i ceti politici dominanti aggirano la crisi di consenso che avvolge tutta la politica liberale: al governo non è necessario suscitare consenso, quanto amministrare il dissenso, impendendo che questo tracimi verso rivoli ingovernabili. Nel medio-lungo periodo però questa crisi di consenso erode le fondamenta della gestione politica liberale. Non è un caso che ogni elezioni tende a bruciare il leader apparso nuovo e invincibile solo qualche mese prima. Il caso di Renzi è monumentale, ma in forma diversa tutti i presunti leader occidentali hanno bruciato in fretta le tappe del fallimento: Obama, Cameron, Monti, Hollande, Tsipras, Trump, May, per dirne alcuni, in attesa della rovina macroniana di cui già si intravedono le premesse. A restare stabile sembra essere solo la Merkel, ma la Germania fa storia a sé: è il paese in cui si concentra tutto il surplus produttivo europeo, in grado di garantire una parziale (parzialissima, ma in tempi di crisi…) redistribuzione dei redditi capace di suscitare consenso politico. Ogni leader, partito o movimento è destinato a bruciarsi in fretta proprio perché la distorsione rappresentativa lo rende simbolo di un’estrema minoranza del corpo elettorale. La situazione francese è d’altronde esemplare. Da anni tutta l’Europa liberale prova ad adeguare la Francia al modello liberista anglosassone, smussando quegli aspetti dello Stato sociale transalpino dichiaratamente incompatibili con il neoliberalismo europeista. Eppure la crociata euro-liberista, nonostante possa contare su validi rappresentanti nella stessa Francia, si scontra con la distorsione del sistema elettorale francese che produce continui presidenti eletti da un’estrema minoranza. Ogni riforma si scontra con la coalizione (questa sì maggioritaria socialmente) degli interessi avversi, interessi irriducibili vicendevolmente ma uniti dall’avversione al presidente di turno.
Tutto questo produce una situazione di stallo gravida di soluzioni ingestibili. Ieri la Brexit, oggi questo o quel referendum (Renzi docet, ma anche l’oki greco del 2015), domani qualche altra imprevedibile exit dal processo neoliberale. Ecco perché persino le classi dominanti non dovrebbero sottovalutare questo processo destituente in corso tra politica e popolo. Eppure sembra che a nessuno freghi qualcosa. Tutto di guadagnato per una sinistra degna di questo nome, in teoria. In pratica, l’assenza di questa impedisce alla situazione generale di prendere una piega determinata. Si rimane così sospesi in un eterno presente in cui le classi dominanti vivono una crisi di consenso incapace di generare vere crisi di dissenso.