Prime riflessioni su Pomigliano
Ieri mattina abbiamo partecipato al grande corteo dei lavoratori di Pomigliano a Napoli. Erano tanti, contenti e allo stesso tempo incazzati, felici ma anche esausti di una lotta che piano piano li sta logorando, fiaccati nello spirito ma soprattutto nelle tasche. Perché chi sciopera lo fa con i suoi soldi, scegliendo di non avere il turno pagato, scegliendo di rimetterci pur di difendere i suoi diritti. Qualcuno dovrebbe ricordarglielo a Marchionne…
Nonostante questa battaglia estenuante contro il padrone FIAT, ieri i lavoratori di Pomigliano hanno avuto la forza di contestare anche la CGIL. Non solo quei lavoratori vicini ai Cobas o allo Slai Cobas, che da tempo ne sottolineano la mancanza politica e sindacale, ma anche gli stessi lavoratori appartenenti alla FIOM erano giustamente incazzati verso un sindacato, la CGIL, che sottotraccia sta cercando di sfilarsi da questa lotta, prendendone le distanze, se non proprio appoggiando pienamente il SI al referendum, come la CGIL Campania. Sono stati momenti concitati ma al tempo stesso significativi, che ci hanno fatto capire come i lavoratori di Pomigliano non hanno assolutamente voglia di abbassare la testa, di sottostare, di rifluire. Abbiamo capito, ancora una volta se mai ce ne fosse stato il bisogno, che loro sono il futuro, e non un residuo del passato. Sono più attivi e vitali di tanti reperti da museo presenti nella sinistra, nella nostra sinistra. Sono loro l’economia reale, quella che produce, ma anche quella che lotta per tutti noi, perché una vittoria a Pomigliano significa una vittoria in tutto il mondo del lavoro italiano.
Ci hanno fatto capire però anche un’altra cosa, e cioè della loro solitudine; pochissimi compagni al loro fianco, quasi nessuno dal resto d’Italia. Certo, come sempre i nostri compagni e fratelli di Napoli, gli studenti della Federico II, erano li, come c’eravamo anche noi, ma certamente non bastiamo. Bisogna far sentire questa gente meno sola, e non ci stiamo riuscendo.
Fatta questa premessa, ci premeva sottolineare alcune riflessioni, parziali e ancora acerbe, che questa vicenda si sta portando appresso, e in particolare una su tutte, generale.
Sono decenni che ci sorbiamo le lezioncine sulla presunta rivalità fra i garantiti e i precari; su chi gode dei privilegi di un contratto indeterminato e chi invece deve arrabattarsi nel mondo dei contratti a scadenza; insomma, fra una aristocrazia operaia privilegiata e difesa dai sindacati, e un precariato diffuso senza rappresentanza e senza diritti. Tutto questo non ha senso, e qui lo ribadiamo. Ribadiamo che, sebbene il precariato sia una forma più alta di sfruttamento e in costante e generale aumento, rappresenta ancora neanche il 20% del lavoro in Italia, a fronte di un 80% di presunti garantiti che ogni giorno perdono il posto di lavoro; ribadiamo che, sebbene anche i precari ne escono con le ossa rotte da questa crisi (tralaltro una crisi per loro perenne), sono proprio coloro che godono del contratto a tempo indeterminato che stanno subendo un attacco e una serie di licenziamenti senza precedenti. Che le vicende Alitalia, FIAT, e di numerose altre imprese, ci dimostrano che anche il presunto garantito può essere licenziato, dall’oggi al domani e senza giusta causa; che può essere messo in cassa integrazione, come avviene da più di un anno proprio in quella Pomigliano di cui tanti parlano di lavoro, ma è proprio quello ciò che manca, visto che si lavora due o tre giorni al mese, e tutti gli altri a riposo forzato.
Questa differenza fra lavoratori presunti garantiti e precari non esiste, esiste invece un attacco generalizzato al mondo del lavoro e ai lavoratori. I precari, in tutto questo, sono usati coma grimaldello per abbattere i diritti di chi se li è conquistati in passato. E’ lo stesso meccanismo a cui servono gli immigrati nel mondo del lavoro, e cioè creare quell’esercito industriale di riserva per contenere il costo del lavoro; quella mano d’opera inutilizzata o utilizzata sotto-costo e sotto-diritti che serve a tenere bassi i salari e le rivendicazioni lavorative.
Bisogna insomma abbattere queste differenze che il capitale vuole costruire fra lavoratori: precari contro garantiti, italiani contro stranieri, giovani contro vecchi, ecc.. Bisogna tornare a ragionare come un unico blocco sociale sotto attacco, perché proprio gli eventi di questi giorni ne stanno dando la dimostrazione. E cioè che a rimetterci sono i lavoratori, non i precari, non i garantiti, ma i lavoratori nel loro insieme. Quando lo capiremo, e ci organizzeremo di conseguenza appoggiando le loro lotte, staremo già un bel passo avanti.