Quando eravamo “nè con Saddam, nè con Bush”. Riflessioni a otto anni dalla guerra in Irak
C’erano una volta – era il 16 febbraio 2003 – milioni di persone che, in tutto il mondo, scendevano in piazza contro la guerra in Irak, che si stava profilando all’orizzonte: “non esistono guerre giuste”, si diceva, e non lo erano neanche quelle che si ponevano l’obiettivo di esportare la democrazia, di eliminare rais sanguinari che avevano ripetutamente violato i diritti umani e commesso crimini contro la popolazione curda e irakena, che forse possedevano armi di distruzione di massa. A Roma scesero in piazza 3 milioni di persone (650 mila per la questura, e già questa cifra è indicativa), dietro uno striscione che diceva “No alla guerra senza se e senza ma. Fermiamo la guerra in Iraq”: tra i partecipanti, uomini politici che – già allora – difficilmente si potevano annoverare a “sinistra”, che difficilmente si potevano considerare pacifisti, come quel Massimo D’Alema (leggi) che nel 1999, quando era al governo, aveva autorizzato la partecipazione italiana ai bombardamenti Nato contro la Serbia. Nonostante queste partecipazioni ipocrite – come al solito gli esponenti di alcuni partiti politici si dicono contrari alle cose solo perché portate avanti dai governi Berlusconi, ma sono in realtà favorevoli (basti pensare a tutte le volte in cui, tornati al governo nel 2006, hanno votato i rifinanziamenti delle missioni all’estero…) –, si trattava di un’enorme presa di posizione non solo dei militanti politici, dei compagni, ma anche della società civile, una società civile critica e vitale, che alle politiche imperialiste occidentali era ancora in grado di opporre – magari anche solo esponendo una bandiera della pace dal proprio balcone (leggi) – una visione alternativa del mondo e delle relazioni internazionali: si trattava delle stesse persone che – fisicamente o idealmente – avevano partecipato alle manifestazioni di Genova contro il G8, che in ogni occasione si opponevano al liberismo e all’imperialismo. Anche il papa – che allora era ancora Wojtyla – prese posizione contro la prospettiva del conflitto bellico, invitando i cattolici a digiunare per la pace il 5 marzo (leggi).
Il 20 marzo – esattamente otto anni fa – iniziò poi la guerra contro l’Irak: immediatamente decine di migliaia di persone si riversarono spontaneamente in piazza in tutta Italia (leggi). Si tratta di episodi che fanno parte del bagaglio politico di tutti i militanti, almeno di quelli che hanno più di 22-23 anni.
Ma non è per nostalgia del passato che ripensiamo oggi a quei momenti, a quel movimento per la pace che – seppur con tutti i suoi limiti, che c’erano e non possono essere dimenticati – aveva saputo mobilitare milioni di persone. In un momento in cui la sinistra, in Italia, sembra essere allo sbando è infatti necessario partire da questo per comprendere cosa è cambiato, per cercare di uscire dal pantano in cui sembriamo esserci infilati.
Ieri è iniziata, infatti, una nuova guerra imperialista, con i bombardamenti prima francesi e subito dopo americani sulla Libia. Si tratta di una guerra imperialista, senza dubbio, ma a sinistra ormai – a soli 8 anni di distanza dal 2003 (anni in cui, tra l’altro, tutte le previsioni di quanti allora erano fermamente contrari a quella guerra si sono realizzate) – non solo si ha timore di affermarlo senza mezzi termini ma, in alcuni casi, si tenta di giustificare il ricorso alle armi, sposando la propaganda occidentale della “guerra umanitaria”. Un atteggiamento che colpisce e viene sottolineato da giornali di destra come “Libero” (leggi) e “Il Giornale” (“Per carità, la realpolitik va bene. Figurarsi: sono anni che la predichiamo. Sono anni che diciamo che un dittatore si può anche bombardare, se serve a salvare vite umane. Sono anni che non ci scandalizziamo per il fatto che le guerre si facciano anche per interessi economici, perché da sempre avviene così. Quello che ci fa un po’ paura è l’integralismo dei neofiti. Soprattutto, fa un po’ ridere pensare che si possa manifestare per mesi urlando che «non esiste una guerra giusta» e poi scoprire all’improvviso che una guerra giusta esiste. E pure vicino a casa”: leggi): osservazioni che, per quanto espresse con la solita superficiale ottusità di questi quotidiani, difficilmente possono essere confutate, almeno a leggere gli editoriali di Conchita De Gregorio sull’“Unità” (leggi e leggi) o l’appoggio di Vendola alla risoluzione Onu che ha permesso i bombardamenti (ci chiediamo che fine abbia fatto il Vendola che, pochi anni fa, manifestava per la pace e affermava che quella in Irak fosse una guerra assurda, che la nostra Costituzione fosse stata scritta sul principio “Mai più guerra”: leggi e leggi). Affermazioni, questi ultime, che gettano discredito sulla sinistra tutta, mostrandola indecisa e contraddittoria, se non ipocrita.
Ora, lentamente, anche alcuni partiti e diversi collettivi di compagni – nelle loro diversità – stanno prendendo posizione contro questa nuova guerra imperialista. La posizione è chiara: non si può difendere Gheddafi, ma non si può neanche appoggiare, o tollerare in silenzio, un intervento imperialista volto non ad una astratta tutela dei diritti umani, ma bensì al controllo delle risorse energetiche della Libia. Quello che ci stupisce, sinceramente, è che, a differenza di 8 anni fa – quando era solo la destra che cercava di sminuire le posizione contrarie alla guerre sostenendo che i cosiddetti “pacifisti” contrari alla guerra appoggiavano Saddam Hussein – oggi si faccia fatica a comprendere che si possa essere contrari alle politiche che hanno caratterizzato il regime di Gheddafi e, al contempo, essere anche fermamente contrari all’intervento occidentale. Un piccolo esempio che ci riguarda. Da parte nostra abbiamo manifestato in diversi post il nostro ritenere Gheddafi un personaggio politico ormai indifendibile: “Come collettivo, pur riconoscendo il ruolo svolto dalla Libia nella lotta contro il colonialismo negli anni seguiti alla rivoluzione del 1969, già da moltissimo tempo non proviamo più alcuna simpatia per Gheddafi e il suo regime. E però non facciamo neanche il “tifo” per gli altri, senza sapere chi essi siano e che cosa vogliano” (leggi); “La simpatia che un tempo nutrivamo per Gheddafi e la sua rivoluzione è finita da un pezzo, da quando la Libia ha accantonato il suo libretto verde smettendo i panni dell’anticolonialismo laico e terzomondista, pur con tutte le sue contraddizioni, per indossare quelli del cane da guardia delle coste dell’occidente” (leggi). Eppure, nonostante queste parole chiare, a tutt’oggi qualcuno ci accusa – neanche troppo sottilmente – di non “mantenere ferma la barra dell’opposizione a Gheddafi” (leggi). Non dobbiamo essere gli unici a cui è capitata questa cosa, se anche Giuseppe Genna – ad esempio – in un bel post su carmilla si è sentito in dovere di specificare che “Non si tratta qui assolutamente di difendere un furbone vestito come se stesse recitando il Nabucco al teatro di Forlimpopoli. Che Gheddafi sia un criminale è patente dallo scorso secolo”(leggi).
E dunque? E dunque una riflessione è quantomeno necessaria. Ricordiamo le ridicole polemiche contro l’allora segretario della Cgil Guglielmo Epifani (non certo un rivoluzionario…), che nel 2003 aveva affermato di rifiutare “la logica di chi dice stai con Bush o con Saddam, perché ci sono le ragioni per dire che io non sto né con il tiranno Saddam né con Bush” (leggi). La polemica contro di lui (leggi e leggi), guidata dall’allora presidente della Camera Casini, lo aveva poi spinto a spiegare che “essere contro le ragioni che hanno portato l’ amministrazione degli Usa a schierarsi per la guerra non può assolutamente essere scambiata, o diventare sostegno, a una persona e a un regime come quello iracheno che si è macchiato di responsabilità e crimini atroci verso altri Paesi e verso altri popoli” (leggi). Al di là della querelle politica, quindi, la posizione “Nè con Saddam, né con Bush” era ritenuta assolutamente possibile e solo i politici di destra, alcuni commentatori – come quelli che, sul corriere, mettevano in luce come nei cortei “di cori contro Saddam non se ne sentono” (leggi), o come quei giornalisti di repubblica che tentavano, senza successo, di mettere in difficoltà Gino Strada nelle loro interviste (leggi; si tratta, tra l’altro, di un’intervista incredibilmente simile a quella rilasciata ieri da Strada) – , o esponenti di quel centrosinistra che aveva appoggiato l’intervento in Kosovo, la criticavano, riducendola a una subdola preferenza per Saddam. Perfino Fassino, pur rimarcando la sua preferenza per la “democrazia americana”, poteva dire “Sono contro Saddam perché è un dittatore, ma sono contro Saddam con gli strumenti della politica e non condivido, invece, la scelta di Bush di ricorrere agli strumenti militari perché questa guerra è ingiustificata, insensata e priva di legittimità” (leggi). Ed era, ripetiamo, una posizione certamente ben poco rivoluzionaria, anche criticata da quanti – giustamente – misero in luce come accettare di entrare in queste polemiche sterili fosse una modalità di azione che portava a una divisione a un indebolimento del movimento pacifista (leggi).
Pochi giorni dopo, un sondaggio di Renato Mannheimer mise in luce, tra l’altro, come il 45% degli italiani condividesse la posizione “Né con Saddam, né con Bush” (leggi e leggi) espressa da Epifani. Dunque Fassino, il papa, D’Alema, Epifani, tre milioni di romani e milioni di persone in tutto il mondo che si opposero alla guerra in Irak erano tutti segreti sostenitori di Saddam Hussein? Ovviamente no. E infatti nessuno, all’interno di quello che allora era un florido movimento, avrebbe mai accusato nessun altro di esserlo. Le posizioni erano chiare, non c’era neanche bisogno di ripeterlo. La vera sorpresa è oggi, quando questa posizione sembra essere, in moltissimi casi, non solo non compresa, ma neanche presa in considerazione come alternativa possibile. Si è contro l’intervento occidentale in Libia? Ed ecco che si viene immediatamente dipinti, anche a sinistra, come sostenitori un po’ retrò di Gheddafi.
Questo atteggiamento, del resto, non è casuale e non è solo il frutto della propaganda mediatica contro il regime di Gheddafi, in molti casi forzata e comunque ben poco disinteressata, a cui abbiamo assistito nelle ultime settimane. Anche contro Saddam Hussein, infatti, si spiegò la propaganda occidentale, con lo stesso impegno e con la stessa forza. Ma allora esisteva una sinistra capace non solo di smontare le falsità della propaganda (basti pensare alle menzogne sulle armi di distruzione di massa, poi ammesse anche dagli stessi Usa), ma anche di non farsi schiacciare dall’agenda politica statunitense, che imponeva di schierarsi “o con Saddam, o con gli Stati Uniti”, nonostante la vicinanza cronologica con gli attentati dell’11 settembre, che avevano costituito un vero e proprio shock per l’occidente. Esisteva ancora, insomma, l’unica sinistra degna di questo nome, critica, capace di riflettere e di rendere popolari e condivise le proprie analisi, di creare opinione pubblica, di proporre una visione del mondo alternativa a quella proposta dall’imperialismo occidentale, ben diversa – tanto per fare un esempio – da quella sinistra che, al governo pochi anni dopo, fece appello a ragioni “realpolitiche” per giustificare il rifinanziamento delle missioni militari all’estero.
Quelle ragioni “realpolitiche” sono state assorbite da un gran numero di persone che, in modo diverso, sono “di sinistra” e che oggi non rifiutano l’idea di una presunta “guerra umanitaria”. Altre persone, deluse, hanno proprio smesso non solo di votare, ma anche di credere in un’alternativa. Da dove possiamo ripartire, dunque?