Quello che ci insegna la lotta NOTAV
Negli ultimi giorni ha assunto un rilievo particolare un determinato refrain ripetuto in maniera ossessiva dai media e dalla politica: al di là delle differenze fra chi approva e chi contesta la costruzione del TAV – tutte apparentemente legittime – nessuno deve oltrepassare il confine del diritto, e dunque scadere nell’illegalità. Di fronte l’illegalità, anche la protesta giusta deve fare un passo indietro e lo Stato riaffermare la propria sovranità. I primi a sviluppare e promuovere un ragionamento simile sono proprio quelle forze politiche e sociali del campo centrosinistro: Bersani e il PD, in primo luogo, ma anche ovviamente quei settori della magistratura legati all’area di centrosinistra che da decenni legano il proprio nome alla repressione del conflitto, e dunque Caselli e Magistratura Democratica. Per non parlare dei quotidiani e televisioni d’area, prime fra tutte Repubblica e il suo impero mediatico.
Davanti a questa obiezione apparentemente di buon senso (almeno, di buon senso democratico), anche segmenti dell’opinione pubblica vicini alle ragioni delle proteste contro l’Alta Velocità non sembrano più trovare argomenti convincenti. Ma le cose stanno davvero così? E cioè, la politica deve sempre e comunque fra un passo indietro rispetto allo Stato di Diritto, la legge dev’essere sempre il confine non oltrepassabile di fronte alla quale anche la più evidente delle ragioni politiche deve cedere? In effetti le cose non stanno proprio in questo modo, anche se decenni di liberal-liberismo ci stanno facendo credere il contrario.
Il diritto positivo organizzato dallo Stato segue sempre i rapporti di forza che vengono determinati all’interno dell’organizzazione statale. Lo Stato è l’espressione politica dei rapporti di forza, e la legge è il frutto di questi rapporti. La legge non determina questi rapporti, ma li fa rispettare. E’ per questo che è assolutamente immaginario il convincimento che un diligente e generale rispetto delle leggi migliorerebbe la condizione delle persone, e non è un caso che i promotori di questa visione del mondo sono proprio i primi criminalizzatori dei movimenti antagonisti.
Questa è una asserzione talmente ovvia che infatti non è certo monopolio dei movimenti antagonisti e/o anticapitalisti. Anche il PCI, strenuo difensore della legalità costituzionale, presidiava i picchetti dei lavoratori nel tentativo di non far entrare i lavoratori crumiri nelle fabbriche. E il picchetto è un’azione illegale, una imposizione di una parte dei lavoratori su altri lavoratori. E’ illegale ma non illegittima. Ed è proprio questa la differenza: mentre lo Stato si muove solo su un piano di legalità, la lotta politica si muove sul piano della legittimità. Non necessariamente contro la legalità, ma oltre la legalità, nel senso che non è questo il confine invalicabile entro cui si muove chi fa politica.
Infiniti possono essere gli esempi storici: dallo scoppio della “rivoluzione” americana, con l’atto di sabotaggio illegale – ma non illegittimo – dei lavoratori americani contro le navi inglesi, alla vicenda della Rivoluzione francese. Rivoluzioni borghesi e legalitarie, ma non per questo strette nell’ambito dello Stato di Diritto.
Insomma, chi fa politica non si pone mai esclusivamente sul piano della legalità. Soprattutto poi se stiamo parlando di espressioni politiche – come i movimenti antagonisti – che non hanno a disposizione gli strumenti per cambiare direttamente le leggi: il solo modo di intervenire sulla legge dello Stato, allora, è andare oltre la legge, affermare un nuovo tipo di Diritto. Proprio come ci insegna tutta la storia del movimento sindacale di ogni paese. Tutti i diritti dei lavoratori sono stati conquistati con l’illegalità, e cioè sfidando una legalità che non era più adeguata allo sviluppo storico raggiunto. A partire dallo sciopero, ovviamente illegale, per finire a tutti i diritti conquistati nel corso dei secoli, ognuno dei quali è necessariamente incorso in forme di lotta illegali per vedersi conquistato. Forme di lotte illegali ma non, appunto, illegittime, e dunque entrate a far parte anche del diritto positivo.
Fatto quindi questo ragionamento, che è anche la premessa per affrontare l’argomento in merito alle forme di lotta che sta mettendo in campo il movimento NOTAV, chiedersi se una forma di lotta è illegale o meno è assolutamente inutile. Il blocco dell’autostrada, il taglio delle reti, lo scontro con la polizia, le manifestazione non autorizzate, devono essere valutate di volta in volta se legittime, se adatte allo scopo, non se rientrano nell’ambito del diritto, della legalità statale. Se, di fronte a un attacco senza precedenti a un territorio e a una popolazione, questo territorio e questa popolazione decidono di difendersi e di contrattaccare, sono questi soggetti che si scelgono gli strumenti più efficaci, non è certo lo Stato di Diritto che delimita il campo delle loro possibilità.
Dunque, questi argomenti lasciamoli a Repubblica e ai suoi lettori, convinti che i diritti e i miglioramenti sociali derivino unicamente da una concessione dello Stato e del potere politico. Una concezione dei rapporti sociali e della politica più reazionaria del pensiero liberale stesso, che infatti prevede l’uso della forza e della ribellione contro lo Stato quando questo dovesse violare i diritti fondamentali del cittadino. Per il Partito Democratico, anche di fronte a una palese violazione dei diritti dell’uomo, non ci dovrebbe essere alcuna forma di protesta che preveda di andare al di là dei confini del diritto.
Pertanto la politica si autodetermina da sé, non in base alle leggi dello Stato. Ed è per questo che tutto ciò che viene deciso dalle assemblee popolari della Val di Susa è perfettamente legittimo. Anche ciò che supera i confini dello Stato di Diritto.
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Dalla Val di Susa ci viene però anche un’altra grande lezione, questa volta una lezione che ci riguarda come compagni e militanti. E cioè che questa consapevolezza dello scarto fra legalità e legittimità, per la prima volta da moltissimi anni, è patrimonio comune di tutta la popolazione in lotta. Non sono più le avanguardie politiche che si pongono questo problema e lo praticano, ma è tutta la popolazione presente nelle assemblee popolari che è consapevole che per vincere questa battaglia bisogna addentrarsi in forme di lotta illegali. Non è detto, e non è neanche necessario, che tutti o la maggior parte di questi scendano nell’illegalità, o nell’extralegalità; ma tutta la popolazione NOTAV è concorde con queste pratiche di lotta. C’è consenso, ed è questo che crea la legittimità di queste forme di lotta. Le avanguardie (le strutture politiche) non sono slegate dalla massa contraria all’Alta Velocità. Nessuno, nella Valle, è andato a chiedere il pedigree degli arrestati dei mesi scorsi, sono stati tutti rivendicati come compagni del movimento NOTAV, senza se e senza ma. Quando nei blocchi stradali sono presenti pezzi della FIOM, sindacato conflittuale ma ultralegalitario, significa che anche pezzi di quel sindacato stanno reimparando che la lotta politica non può essere racchiusa nell’ambito del legale, e questo è un enorme passo avanti.
Questa consapevolezza è il risultato di molte cose, ma soprattutto il frutto di anni e anni di intelligente lavoro politico. Al di là di come andrà a finire, questa lotta contro l’Alta Velocità dovrà funzionare come esempio, in futuro, di come cercare di generalizzare altre lotte e altre proteste. E’ il modello vincente, soprattutto in un periodo storico che non vede segmenti sociali capaci di organizzare attorno a sé tutto il resto della classe, a far da traino e da avanguardia sociale al resto della popolazione sensibile. Per una ragione o per un’altra, tutto questo in Val di Susa è avvenuto, sta avvenendo. Ed è già una vittoria.