realpolitik
Questa mattina i maggiori quotidiani internazionali riportavano la notizia del mancato incontro tra il Dalai Lama, appena sbarcato negli USA, e il presidente Barack Obama; un evento che rompe una consuetudine ormai consolidata fin dal 1991 quando, sotto la presidenza Bush, gli Stati Uniti presero particolarmente a cuore la questione dei “diritti umani” nel Tibet. Ci torniamo sopra perchè, per quanto possa sembrare marginale, a nostro avviso questa vicenda è al tempo stesso un esempio di “mistificazione ideologica” da manuale e un chiaro segnale dei nuovi equilibri geopolitici determinati dalla crisi economica mondiale. Riprendendo pedissequamente quanto sostenuto dalla Clinton i media hanno cercato di giustificare questo “sgarbo” come il tentativo di non irritare troppo Hu Jintao in vista dei colloqui sull’ambiente. Come a dire: evitiamo di tirare troppo la corda sul Tibet così avremo più margine di manovra nel tentare di convincere i cinesi a ridurre le loro emissioni di CO2, ovvero di rallentare la loro crescita economica. Ovviamente nessuno si è chiesto quanto vi sia di genuino in questa versione o quanto, invece, pesi il fatto che la Cina è attualmente il maggior detentore estero di titoli del debito pubblico USA. Alcuni analisti parlano di almeno 900 miliardi di dollari e a marzo erano sicuramente 780 miliardi. E quanto influisca il fatto che, oggi più che mai, l’amministrazione Obama stia affidando ad un forte iniezione di soldi pubblici (la socializzazione delle perdite di marxiana memoria) il piano di salvataggio dell’economia americana e che per far questo sia quindi indispensabile la “fiducia” cinese. Due economie ormai legate a doppio filo, con Pechino interessata a che il dollaro non si deprezzi eccessivamente ed ormai in grado di influenzare anche l’agenda politica a stelle e strisce. Un cambiamento di non poco conto rispetto al mondo “prima della crisi” e con il baricentro dell’economia che si sposta sempre di più verso il pacifico.