Resistere è vincere!
Resistere è vincere. Quante volte l’abbiamo letto e scritto? Una di quelle frasi dal sapore vagamente retorico e autoconsolatorio che tiriamo fuori quando la forza delle ragioni degli oppressi e degli sfruttati viene piegata dalla ragione della forza degli oppressori, e quando il vento della storia sembra soffiare in direzione ostinatamente opposta alla nostra.
La lunga battaglia di Gaza e la tregua entrata in vigore domenica scorsa l’hanno però nuovamente resa vera, riempiendola così di significato. Perché per quanto fragile e precaria possa essere, è proprio di una vittoria della Resistenza palestinese che oggi bisogna parlare. Una vittoria pagata si a carissimo prezzo, ma che anche per questo ci spinge ad alcune prime riflessioni di carattere generale.
La più importante, probabilmente, è la conferma che la subordinazione del “militare” al “politico” rimane una questione dirimente, soprattutto per un movimento insorgente. Fin dal 7 ottobre la Resistenza aveva ben chiaro che gli obiettivi dell’operazione “diluvio di Al Aqsa” erano eminentemente politici: impedire la “normalizzazione” dell’occupazione coloniale con gli Accordi di Abramo, ridare centralità alla questione palestinese e porre nuovamente all’ordine del giorno la liberazione della Palestina dopo il conclamato fallimento degli accordi di Oslo.
Nessuno a Gaza pensava che la guerriglia, per quanto eroica nel suo sacrificio, potesse sconfiggere militarmente un esercito regolare che oltre ad essere meglio equipaggiato era anche appoggiato, approvvigionato e finanziato dall’imperialismo statunitense. Era un altro il piano su cui andava portato il nemico per poter provare a giocare la partita, per l’appunto quello “politico”, ed il campo andava allargato oltre i confini della Palestina storica rendendo globale la lotta contro il sionismo. Israele, al contrario, ha coltivato fin dall’inizio l’illusione di poter raggiungere i suoi obiettivi contando esclusivamente sul proprio strapotere militare, relegando così in secondo piano l’aspetto politico, ed ha perso.
Sappiamo bene che parlare di una sconfitta israeliana potrebbe sembrare un’iperbole soprattutto a fronte del tributo di sangue che sono stati costretti a pagare i palestinesi con oltre 50mila morti e le decine di migliaia di feriti. Bisogna però ricordare quali erano gli obiettivi che le forze occupanti si erano prefissati.
Fin da subito Netanyahu aveva dichiarato che le operazioni belliche sarebbero proseguite fino alla completa “eradicazione di Hamas” da Gaza e fino a quando l’ultimo degli “ostaggi” non fosse stato liberato, ma come dimostrano plasticamente le immagini dello scambio di prigionieri avvenuto pochi giorni fa, entrambe questi obiettivi sono miseramente falliti.
Fatta eccezione per i 4 ostaggi liberati grazie al supporto dell’intelligence statunitense e a un diversivo costato la vita a oltre 200 civili, e per i 2 ostaggi fuggiti autonomamente, per tutti gli altri Israele non ha potuto far altro che piegarsi alla scambio, liberando centinaia di prigionieri palestinesi e riconoscendo e legittimando nei fatti la Resistenza come un’interlocutrice politica inaggirabile. Quanto ai propositi di annientare la guerriglia, se non bastassero le immagini del bagno di folla dei miliziani in uniforme di domenica scorsa o gli attacchi mortali sferrati dalla stessa all’Idf solo poche ore prima della firma della tregua in quelle aree che Israele stesso aveva dichiarato “liberate”, sono state le dichiarazioni del capo della diplomazia Usa a sgomberare il campo da ogni velleitarismo sionista. Il 13 gennaio scorso Blinken è stato infatti costretto ad ammettere che, nonostante i colpi inferti dall’esercito israeliano: “Hamas ha già reclutato tanti militanti quanti ne ha persi”.
Netanyahu è stato inoltre costretto a rinunciare alla partizione della Striscia attraverso la realizzazione di corridoi militarizzati che avrebbero posto sotto il controllo dell’IDF gli spostamenti dei gazawi così come ai propositi di mantenere una presenza militare nel cosiddetto corridoio Filadelfia al confine con l’Egitto.
Un ulteriore obiettivo israeliano, nemmeno troppo dissimulato, anzi chiaramente rivendicato dai ministri Smotrich e Ben Gvir, era quello di minare definitivamente il sostegno della popolazione alle forze combattenti attraverso i massacri indiscriminati e il blocco degli aiuti umanitari. Uccidere e affamare per “togliere l’acqua al pesce”, si sarebbe detto un tempo. Ma anche in questo caso la resistenza davvero stoica della popolazione civile ha mandato in frantumi i piani sionisti. Le contraddizioni che si sperava di suscitare nel campo palestinese si sono invece riversate in quello avverso. Le tensioni che già prima del 7 ottobre attraversavano la società israeliana si sono esacerbate e amplificate a dismisura, la questione della negoziazione con Hamas per la liberazione degli ostaggi è divenuta l’epicentro di una faglia che sta mettendo a rischio la tenuta stessa dell’esecutivo ormai finito in un vicolo cieco e costretto a scegliere tra chiudere un conflitto durato 15 mesi e che non ha portato a nessun risultato concreto, perdendo così l’appoggio dei partiti più oltranzisti, o mantenere in piedi una guerra perpetua a costo di allargare la crisi politica e sociale.
Ciò ovviamente non significa che i palestinesi potranno finalmente contare su una qualche sponda politica interna alla “società civile” israeliana, chi ancora nutre speranze di questo genere (soprattutto dalle nostre parti) dimostra di non aver compreso a fondo la reale natura del sionismo, sia nella sua variante di destra chein quella di “sinistra”. Salvo microscopiche ed ininfluenti eccezioni in questi 15 mesi da dentro Israele non si è levata una sola voce contro il genocidio in corso, contro il regime di apartheid in cui sono costretti i palestinesi o contro il colonialismo.
Ci sono infine altri due aspetti su cui vale la pena soffermarsi e il primo di questi riguarda la società palestinese. Questi quasi 500 giorni di conflitto hanno reso palese agli occhi del mondo il collaborazionismo dell’Anp con il governo di Tel Aviv. L’Autorità Nazionale Palestinese nata dagli accordi di Oslo non solo non ha alzato un dito a sostegno dei combattenti di Gaza, ma quando si è mossa lo ha fatto per reprimere, arrestare e uccidere i militanti della Resistenza in Cisgiordania. Nonostante questo, stando al testo dell’accordo, il gruppo più consistente di prigionieri palestinesi condannati all’ergastolo e destinati alla liberazione nel corso delle prossime fasi della tregua appartiene proprio a Fatah. Saranno infatti 127 i prigionieri liberati riconducibili al principale partito dell’Anp che saranno liberati proprio grazie alla Resistenza, contro i 123 di Hamas, i 36 del Jihad islamico, i 7 del Fronte Popolare e i 2 del Fronte Democratico. Un segnale forte, ed estremamente intelligente, da parte di chi, se da una parte si propone legittimamente come rappresentante di tutti i palestinesi, dall’altra chiarisce all’ala più conseguente e coerente di Fatah che è stata la lotta, e solo quella, a tirarli fuori dal buco nero in cui li aveva rinchiusi Israele. Non certo le manovre e il piccolo cabotaggio di chi per difendere i propri privilegi si è predisposto a mantenere l’ordine pubblico per conto del nemico.
C’è poi l’altro aspetto, quello che in qualche modo ci riguarda più da vicino e su cui forse troppo poco si è riflettuto, ossia l’abilità dimostrata nel combattere e sconfiggere Israele anche sul piano della narrazione. Nonostante l’incommensurabile disparità di mezzi a disposizione, nonostante il monopolio informativo, la Palestina è riuscita a vincere la guerra della comunicazione. Negli ultimi 15 mesi abbiamo visto sollevarsi un movimento globale di sostegno alla causa palestinese come mai era accaduto prima d’ora. Milioni di donne e uomini sono scesi in piazza in ogni angolo del mondo non solo per chiedere “la pace” o la fine dei bombardamenti, ma per reclamare la liberazione “dal fiume al mare”. Una marea che si è alzata anche in quello che chiamiamo Occidente e che ha infranto il tentativo di nascondere l’oppressione coloniale dietro un presunto scontro di civiltà, riportando invece al centro del dibattito la questione dell’imperialismo e del colonialismo. Una mobilitazione che è stata anche generazionale e che ha determinato processi di attivazione e politicizzazione da cui non potrà non trarre beneficio anche la lotta di classe. Stando ai dati riportati dall’European Media Center for Palestine nei 470 giorni che ci separano dall’inizio dell’aggressione israeliana solo in Europa ci sono state oltre 30mila manifestazioni che hanno attraversato 619 città. Un dato enorme che se da una parte sottolinea lo iato incolmabile che si è creato tra l’opinione pubblica europea e la sua classe dirigente sulla questione palestinese dall’altro indica anche una faglia su cui potenzialmente poter far leva anche per far emergere altre contraddizioni. Il lascito dell’internazionalismo in fondo è proprio questo, mostrare quel filo rosso che collega indissolubilmente le questioni globali a quelle locali, la macropolitica alla micropolitica.
Torniamo dunque alla formula da cui eravamo partiti, perché resistere in questo caso ha significato davvero vincere. Una vittoria, come si diceva, parziale, fragile, precaria e che per il terribile sacrificio che ha richiesto non ammette trionfalismi, ma pur sempre una vittoria. E quando la Palestina vince vincono anche gli oppressi di tutto il mondo.