Roberto vive

Roberto vive

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da Cuori Rossi

(1978 ndr) La scuola romana dell’omicidio politico (…) è pronta a laureare i suoi studenti più esaltati. La determinazione di personaggi come Franco Anselmi, “il ragazzo col passamontagna imbevuto di sangue”, Alessandro Alibrandi, figlio di un noto giudice con accese simpatie destrorse, Cristiano e Giuseppe Valerio (Giusva) Fioravanti, cresciuti, dopo la chiusura della “Mantakas”, alla sezione missina di Monteverde, si incontra con gli analoghi sentimenti dei missini provenienti dal quartiere Prati come Mario Corsi o che gravitano intorno alla sede del FUAN di via Siena come Francesca Mambro, Luigi Aronica, Dario Pedretti, Roberto Nistri, Stefano Tiraboschi, ì fratelli Carlo e Massimo Pucci, Walter Sordi. Un nucleo presto infoltito dalle adesioni di transfughi del movimento estremista Terza Posizione – Dario Mariani, Giorgio Vale, Pasquale Belsito e Luigi Ciavardini – o da simpatizzanti dallo specchiato curriculum criminale come Massimo Carminati, anche lui in classe insieme a Giusva Fioravanti e Franco Anselmi ma molto più famoso per il ruolo di spicco ricoperto all’interno della banda della Magliana. Tra i pochi obiettivi politici chiari a tutto il gruppo, la ferrea volontà di far pagare ai compagni il prezzo della vita dei camerati assassinati. L’occasione si presenta molto presto. Voci provenienti dalle mura di Regina Coeli, il carcere romano, credono di poter individuare tra gli occupanti di uno stabile di via Calpurnio Fiamma gli uomini che hanno sparato a Franco Bigonzetti e Francesco Ciavatta (ad Acca Larenzia ndr). Nessuno si prende la briga di verificare l’attendibilità di una simile accusa perché ormai gente come i fratelli Fioravanti, Franco Anselmi e Alessandro Alibrandi – in maniera non dissimile da quanto dimostrato dai camerati di Saccuccì prima e durante l’omicidio Di Rosa – pensa solo a sparare. Ci sono i loro volti da “bravi ragazzi”, da «terroristi della porta accanto» come sono stati definiti, tra il nugolo di squadristi che nella tarda serata del 28 febbraio 1978 montano a bordo di tre automobili per puntare alla volta dì Cinecittà, alla ricerca di questa fantomatica casa occupata. Arrivato a destinazione, il gruppo ha ancora il tempo necessario a riflettere e a fare un passo indietro: il centro sociale che avrebbe armato gli assassini di Acca Larenzia è stato sgombrato proprio quel giorno e là dove avrebbero dovuti annidarsi gli autonomi ci sono soltanto i sigilli della polizia.  Non ci vuole un genio per capire che la voce diffusa da radio carcere e completamente infondata eppure i terroristi non possono tornarsene nei loro covi a mani vuote: si tratta di vendicare la morte dì Ciavatta e Bigonzetti, certo, ma occorre farlo prima della mezzanotte se, ai camerati dì Acca Larenzia, si vuole aggiungere anche la commemorazione di Mikis Mantakas, morto il 28 febbraio dì tre anni prima. Perseguitato dalla larvata accusa di codardia mossa nei suoi confronti da Alibrandi e da suo fratello Cristiano (già responsabili dell’omicidio dì Walter Rossi), Valerio Fioravanti si fa venire in mente un’idea.. se in via Calpurnio Fiamma non c’è nessuno, perché non spostarsi nei vicini giardini di Piazza Don Bosco? Lì qualche zecca deve esserci dì sicuro… La previsione di Fioravanti si rivela esatta: almeno stando ai capelli lunghi e agli eskimo che indossano un gruppo dì ragazzi che chiacchierano e si fanno le canne seduti sulle panchine dei giardini, i comunisti non aspettano altro che di essere ammazzati. I fratelli Fioravanti insieme a Franco Anselmi sono quelli che si incaricano dell’esecuzione. Entrano nei giardini e si dirigono verso le panchine. Poi, guadagnata la giusta distanza, aprono il fuoco. Valerio questa volta è il primo a sparare. Il gruppo dì ragazzi preso di mira tenta di darsi alla fuga ma i proiettili degli aggressori feriscono due fratelli, Nicola e Roberto Scialabba. Il primo riesce in qualche modo a mettersi in salvo mentre il secondo, agonizzante, resta alla mercé dei suoi assassini. Roberto Scialabba non riesce a muoversi, giace supino sul prato spoglio dei giardini. Valerio Fioravanti sale a cavalcioni sul suo corpo, prende bene la mira e lo uccide senza dargli scampo, piantandogli due pallottole nella nuca. Qualche ora dopo, appena finito di festeggiare la loro impresa nei dintorni del bar del Fungo, nel quartiere EUR, uno dei ritrovi preferiti dai fascisti della capitale, i terroristi, con una telefonata al «Messaggero», rivendicano l’omicidio a nome della “Gioventù Nazional Popolare”. I quotidiani del giorno dopo, però, non prenderanno sul serio quella dichiarazione. E approfittando di qualche grammo di fumo ritrovato nelle tasche di Roberto Scialabba preferiranno scrivere che, molto probabilmente, l’assassinio del ragazzo di Don Bosco era da attribuirsi alla solita guerra tra spacciatori impegnati a contendersi il controllo del territorio.

Roberto Scialabba cresce politicamente dentro Lotta Continua. Poi sceglie di impegnarsi all’interno di Autonomia operaia e, da qui, di prendere parte all’occupazione dello stabile di via Calpurnio Fiamma per dare il suo contributo alla costruzione di un’alternativa all’interno del quartiere dove vive. Tutto questo, però, i killer che lo hanno ucciso non lo sanno. Come tanti altri prima e dopo di lui, Roberto paga una diversità esistenziale che si esprime anche attraverso il fisico, il modo di vestire, il modo di stare in mezzo agli altri. Quello che è sicuro è che Roberto Scialabba non ha mai fatto parte di nessun gruppo di fuoco, tanto meno di quello che ha colpito la sezione missina di via Acca Larenzia. E il fatto che sia stato ucciso, se mai, a far mettere in discussione il suo sostanziale pacifismo. E a ispirare i suoi compagni quando si tratta di porre in piazza Don Bosco il cippo che ricorda la sua morte: «ROBERTO SCIALABBA – c’è scritto sulla lapide – 23 ANNI COMPAGNO RIVOLUZIO¬NARIO ASSASSINATO IN QUESTA PIAZZA IL 28-2-78 DAI FASCISTI SERVI DEL REGIME. LA NOSTRA LOTTA NON SI FERMERA I COMPAGNI CADUTI CI HANNO IN¬SEGNATO A NON FARCI TROVARE MORTI».
Si tratta di parole estremamente importanti. Estremamente importanti perché, se andando a Don Bosco per ammazzare a casaccio si fosse voluto contribuire a fomentare odio e disordine, allora l’azione di Anselmi, Fioravanti e camerati può dirsi perfettamente riuscita. Ma, allo stesso tempo, quelle parole sono estremamente importanti perché il cippo dedicato a Scialabba è stato posto nei giardini di Don Bosco il 28 aprile del ’78, vale a dire soltanto due mesi dopo l’omicidio del ragazzo. E mentre tutti i giornali (con l’eccezione di «Lotta Continua»), unitamente alla questura, sostenevano senza nessuna vergogna che Scialabba era stato ammazzato da qualche altro spacciatore come vergogna chi – come i compagni di Roberto – conosceva veramente il territorio e il modus operandi degli assassini neri non aveva avuto dubbi né aveva avuto bisogno di aspettare il processo per affermare che Scialabba era stato ucciso «dai fascisti servi del regime» Roberto – scrive «Lotta Continua» – era uno dei tanti giovani proletari che vivono nel quartiere ghetto di Cinecittà. Ultimamente non era mai mancato a tutte le manifestazioni indette dal movimento, per i compagni uccisi e contro il confino. Frequentava non assiduamente piazza Don Bosco, dove si recava per salutare gli amici e farsi uno spinello in compagnia. Il suo passato è quello di molti giovani proletari, con tutte le sue contraddizioni. Come tanti anche lui era stato imprigionato nelle carceri di Stato per furto, uscito dal carcere si è ritrovato assieme ai compagni della sezione di Lotta Continua, vivendone tutte le crisi fino al suo scioglimento. Rimasto nel movimento aveva partecipato all’occupazione dello stabile di via Calpurnio Fiamma. Roberto era un compagno che lottava, come tutti noi, contro l’emarginazione che Stato e polizia gli imponevano. E caduto da partigiano sotto il fuoco fascista e non permettiamo a nessuno di infangare il nome, la vita, la militanza di Roberto con accuse infamanti che tendono a criminalizzare la lotta di classe (da «Lotta Continua» del 3 marzo 1978). Per un «Lotta Continua» in grado di inquadrare in modo sostanzialmente corretto il contesto in cui è maturato l’omicidio di Roberto Scialabba, altri mille giornali preferiscono appiattirsi su una versione di comodo, come se il feroce scontro in corso di svolgimento a Roma potesse essere negato. «Il Messaggero» del 1 marzo 1978, per esempio, sostiene che quella di Roberto Scialabba, è stata: «Un’esecuzione a freddo, brutale, quasi certamente legata al torbido mondo della droga, un cancro che va dilagando anche nei quartieri periferici della capitale». Il vero «cancro» di cui parla «Il Messaggero», purtroppo, è un altro. Perché sono proprio gli investigatori preposti alla risoluzione dell’enigma del ragazzo ammazzato a sangue freddo i primi depistatori delle indagini. Strano. Perché un poliziotto dovrebbe conoscere bene la differenza che passa tra il possedere qualche grammo di fumo e l’essere uno spacciatore che si espone alla ritorsione dei rivali in virtù di un’ingente movimentazione di roba… senza considerare il torto crudelissimo che i “servitori dello Stato” hanno perpetrato per anni all’immagine e alla memoria di Roberto: proprio lui che a Cinecittà era noto per le battaglie combattute contro la diffusione dell’eroina è stato trattato come uno spacciatore di droga e dipinto come uno che, in fondo in fondo, la morte se l’era cercata! Una beffa atroce. Specialmente se si tiene conto che, come insegna anche la storia milanese di Fausto e Iaio, quello dell’eroina, negli anni Settanta-Ottanta è stato un business di marca strettamente fascista: basti pensare, per quanto riguarda Roma, al massiccio arruolamento di spacciatori neri che, grazie al tramite di Franco Giuseppucci (detto il “Negro” per le sue idee politiche) o dello stesso Massimo Carminati (detto il “Nero” per lo stesso motivo), entrarono come cavalli nella potente banda della Magliana. Malgrado i presupposti in grado di garantire una veloce soluzione del caso Scialabba ci fossero tutti, il suo omicidio sembrava destinato a risolversi con l’archiviazione delle indagini: uno dei tanti omicidi politici irrisolti; l’ennesimo peso su una convivenza civile – quella italiana – in cui l’assenza di verità e di giustizia mina il rapporto tra i cittadini e le istituzioni fino a ridurre il concetto di “Stato di diritto” a una maschera di sangue e potere inaffidabile e pericolosa. Poi, nel 1982, la svolta. Cristiano Fioravanti, arrestato dopo una sanguinosa sparatoria che coinvolge anche il fratello Valerio e francesca mambro, rimette in discussione il rapporto di fedeltà che lo lega ai suoi camerati, si pente e decide di collaborare. La conoscenza di ciò che è davvero successo a Don Bosco il 28 febbraio del 1978, allora, diventa una confessione da affidare ai magistrati. Una storia di ordinario terrore firmata Nuclei Armati Rivoluzionari: Eravamo a bordo di tre vetture, l’Anglia Ford di mia madre, la Fiat 127 bianca di Massimo Rodolfo e la Fiat 130 (potrebbe però anche essere 132) color senape o oro metallizzato di Paolo Cordaro. A bordo delle tre dette autovetture ci recammo in una stradina limitrofa a piazza Don Bosco e rilasciammo l’Anglia e la Fiat 127, mentre sulla Fiat 130 prendemmo posto io, Valerio, Alibrandi, Anselmi e il Bianco che fungeva da autista. Gli altri tre rimasero ad attenderci nella stradina ove avevamo lasciato le altre due vetture. Giunti in piazza Don Bosco sulla Fiat 130 la cui targa era stata coperta con un giornale, vedemmo che c’erano due o tre persone sedute su una panchina o staccionata dei giardinetti che si trovavano vicino alla strada, dalla parte sinistra, andando verso Don Bosco, mentre altre due o tre persone erano in piedi vicino alla detta panchina o staccionata. Il Bianco rimase al volante della vettura, ed egualmen¬te a bordo della stessa rimase come copertura Alibrandi. [… ] Mi sembra che abbiamo fatto subito fuoco. Io sono sicuro di aver colpito una delle persone verso la quale avevo sparato uno o due colpi, e non potei spararne altri perché la pistola mi si inceppò. Anselmi scaricò tutto il ca¬ricatore della sua pistola, ma non so dire se abbia colpito alcuno, perché fra di noi aveva stima di essere un pessimo tiratore e lo soprannominavamo “il cieco di Urbino”. Valerio colpì uno dei giovani che cadde in terra. Visto ciò, Valerio gli salì a cavalcioni sul corpo, sempre rima¬nendo in piedi, e gli sparò in testa un colpo o due. [ … ] Non si era parlato espressamente in pre¬cedenza di quello che si voleva fare, ma quando tornammo alle nostre macchine nessuna delle tre persone che ci attendevano ebbe a mostrarsi dispiaciuta (dal verbale d’interrogatorio di Cristiano Fioravanti; Roma, 12 marzo 1982).