Sapere chi è Stato
Lo scorso 15 gennaio sono scaduti i famigerati 90 giorni da quando la Corte d’appello di Perugia aveva emesso la sentenza di accoglimento dell’istanza di revisione presentata dal collegio difensivo si Enrico Triaca. Molti ricorderanno la campagna che il Comitato La tortura è di Stato! Rompiamo il silenzio! aveva istruito per sostenere la battaglia di Enrico: la volontà, cioè, di revisionare la condanna per calunnia che gli fu inflitta il 7 novembre 1978 dopo che aveva denunciato di essere stato sottoposto a tortura in seguito al suo arresto (avvenuto il 17 maggio dello stesso anno, nell’ambito delle indagini sull’omicidio Moro) (leggi qui, qui e qui). L’udienza finale del procedimento ha costituito un vero e proprio precedente nella giurisprudenza italiana; ma soprattutto è servito per segnare una nuova chiave di lettura su quanto accadde a molti, moltissimi militanti politici rivoluzionari tra il 1978 e il 1982, ovvero in quel lasso di tempo in cui – anche oltre l’attività della squadraccia del Professor De Tormentis – lo Stato mise in campo una strategia repressiva sistematica contro le opzioni rivoluzionarie che tentavano di invertire i rapporti di forza tra le classi.
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La regia di Stato.
Aspettavamo con una certa curiosità di leggere le carte, per due motivi principali. In primo luogo per vedere quali fossero le motivazioni che hanno spinto la Corte perugina ad una presa di posizione “coraggiosa”, nonostante l’evidenza delle prove presentate dalla difesa di Enrico e la schiacciante valenza probatoria delle testimonianze rese dai teste. Altro elemento di interesse era poi la possibilità di vedere trascritte le deposizioni dei teste che intervennero nella giornata del 15 ottobre 2013, ovvero i giornalisti Nicola Rao e Matteo Indice e soprattutto l’ex commissario Digos Salvatore Rino Genova. Un interesse dettato dalla possibilità di ricostruire, soprattutto attraverso la testimonianza di Genova, il quadro politico in cui maturò la decisione dei vertici militari di predisporre un apparato di polizia parallelo a quello legale, alle dirette dipendenze del Ministero dell’Interno, esclusivamente finalizzato al “trattamento” riservato ai militanti politici tratti in arresto. Assume così un senso più ampio il protagonismo assunto dal De Tormentis – al secolo Nicola Ciocia – e dai “Cinque dell’Ave Maria” nelle indagini sul sequestro del generale americano James Lee Dozier effettuato dalle Br nel dicembre 1981. Allo stesso tempo, infatti, le carte controfirmate dalla sezione penale della Corte perugina mettono nero su bianco le dichiarazioni di Genova che assistette (nel gennaio 1982) alla tortura fisica (sempre tramite waterboarding, la “specialità” della ditta) di Mantovani, Volinia e Arcangeli (compagna del Volinia, molestata sessualmente dal nucleo di Ciocia): torture che portarono, il giorno seguente, alla liberazione di Dozier e all’arresto di Antonio Savasta.
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La motivazione.
Dicevamo, poi, della motivazione della sentenza. La corte evidenzia che le uniche discrepanze tra le deposizioni dei testimoni chiave erano quelle relative all’efficacia della tortura: tra le dichiarazioni di Ciocia a Matteo Indice (Il Secolo XIX, 2007) e l’intervista rilasciata a Fulvio Bufi (Corriere della Sera, febbraio 2012) dallo stesso Ciocia (dove inoltre ammette la paternità del nomignolo De Tormentis), si evince che nel primo caso si fa riferimento a «rivelazioni impressionanti dopo che lo torchiammo», mentre a Bufi il De Tormentis ammise che, per quanto concerneva Triaca, «lui non ha parlato, quindi quei metodi non sempre funzionavano». In nessuna parte del procedimento, quindi, ci sono state testimonianze o elementi che hanno cozzato tra di loro in riferimento alla veridicità delle torture. Ed è proprio per questo che la motivazione, al di là del lato giurisprudenziale, assume una forte valenza politica. Negli incartamenti della motivazione così si legge:
«Ora, valutando tali dichiarazioni nel quadro di tutte le risultanze processuali, compreso l’articolo a firma di Fulvio Bufi, pubblicato nel febbraio 2012 sul Corriere della Sera, deve necessariamente concludersi che un funzionario all’epoca inquadrati nell’Uciogos e rispondente al nome di Nicola Ciocia, dopo aver sperimentato (come segnalato dal Genova) pratiche di waterboarding nei confronti di criminalità comune, le utilizzò nell’epoca del terrorismo nei confronti di alcuni soggetti arrestati, al fine di sottoporre costoro ad una pressione psicologica che avrebbe dovuto indebolirne la resistenza e indurli a parlare. Ma nel contempo, […] può dirsi acclarato che lo stesso funzionario, conosciuto con il nomignolo altamente evocativo di prof. De Tormentis (a quanto pare affibbiato dal Vice-Questore Improta), fu chiamato a sottoporre alla pratica del waterboarding anche Enrico Triaca […]». A ciò la Corte aggiunge che «la pluralità delle fonti consente dunque di ritenere provato che un soggetto, rispondente al nome di Nicola Ciocia, […] confermò di aver, quale funzionario dell’UCIGOS al tempo del terrorismo, utilizzato più volte la pratica del waterboarding, circostanza de visu confermata dal Genova. La stessa pluralità di fonti, sia pure – sotto tale profilo – indirette, consente inoltre di ritenere suffragato l’assunto fondamentale che a tale pratica fu sottoposto anche Enrico Triaca».
Insomma, l’indagine per presentare prove che ribaltassero la posizione di Enrico Triaca «deve ritenersi nella sostanza riuscita, essendo stati acquisiti elementi volti a colmare quell’assenza di prove dirimenti di segno opposto e tali da rendere non più idonei gli argomenti di ordine logico valorizzati nel corso dell’originario giudizio, peraltro non del tutto univoci».
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Rompiamo il silenzio!
La motivazione della sentenza ha occupato pochissimo spazio sui media. Ne hanno parlato il Corriere e il Manifesto, ancora ci si aspetta la pubblicazione su la Repubblica come disposto nella parte conclusiva della stessa. Sta dunque passando sotto traccia. E questo rappresenta un peccato, non tanto come fatto in sé quanto perché sono questi i giorni della bufera sulla RAI per la fiction “Gli anni spezzati” (a proposito della quale ci siamo già espressi qui e qui). La motivazione della sentenza mette a tacere il tentativo pietistico di umanizzare la figura di Calabresi, rispolverando invece la raffinata strategia di Stato che proprio in Calabresi e i suoi epigoni trovò i più solerti esecutori. Ma le carte della magistratura perugina hanno anche messo tacere un altro tentativo di revisione dei cicli di lotta che si sono sviluppati nel ventennio 1960-’80. Nel giorno in cui prendevamo atto di questi incartamenti, il Corriere pubblicava una lettera di Virginio Rognoni, ex Ministro dell’Interno proprio nell’arco temporale in cui fu messa a punto la tortura contro i brigatisti (e molti presunti tali). L’intervento di Rognoni (leggi), significativamente intitolato Contro il terrorismo la risposta fu politica, prende le mosse da un dibattito sorto tra Paolo Mieli e Stefano Rodotà nella trasmissione Otto e mezzo di qualche giorno fa (qui la puntata). Nel siparietto di prima serata, si discuteva sulla presunta endemica “debolezza” della politica italiana che, a giudizio degli ospiti in studio, molte volte – come anche accaduto nella “stagione del terrorismo” – ha derogato alla magistratura il compito di sentinella dello Stato. L’ex ministro Rognoni, colpito nell’orgoglio, ha deciso di dire la sua, ponendo in essere una levata di scudi a difesa del lavoro svolto dalla classe dirigente dell’epoca. In particolare Rognoni ha tenuto a precisare che
«[…] di fronte al terrorismo il «potere politico » non è stato assente, non si è tirato da parte chiamando, di fatto, la magistratura ad un ruolo di supplenza. […] Il terrorismo era una sfida a cui si doveva rispondere, un pericolo devastante per la salute della Repubblica. E la risposta politica c’è stata; la democrazia non si è imbarbarita. […] Solo la politica poteva raggiungere questo obiettivo […] e l’ha fatto cercando di incanalare il sentimento della gente, angosciata, impaurita e in alcune sue parti addirittura propensa a sbocchi autoritari, verso disponibilità e comportamenti democratici»
Parole che cozzano con quanto ha reso pubblico la Corte d’appello di Perugia, che ha anzi indirettamente messo sul banco degli imputati lo stesso Rognoni alle cui dipendenze era stata varata la creazione della squadra di aguzzini capitanata da Ciocia. Una gaffe, quanto meno per il tempismo, che viene anche acuita da alcune considerazioni riportate da uno degli avvocati di Triaca, Francesco Romeo, nell’arringa conclusiva riportata nelle documentazione finale. Nell’arringa, infatti, l’avvocato Romeo invita a considerare il fatto che elementi probatori per parlare di tortura sistemica sui militanti politici arrestati erano rintracciabili anche prima del 2007, ovvero la data della pubblicazione dell’intervista di Indice a Salvatore Genova. A conferma di quanto dichiarato, l’avvocato citava il libro di Sergio D’Elia e Maurizio Turco intitolato Tortura democratica. Inchiesta sulla comunità del 41 bis reale, con particolare riferimento alla prefazione scritta dal pugno di Marco Pannella. Questi racconta, senza essere stato mai smentito o querelato per quanto riportato, di un colloquio avuto con l’allora ministro Rognoni nel 1982 all’indomani dell’esplosione dello scandalo per le torture perpetrate a Cesare Di Lenardo, tristemente noto per essere stato sottoposto a continuate scariche elettriche sui genitali per mezzo dell’apposizione di specifici elettrodi. Scrive Romeo nella sua arringa:
«I Radicali fecero un’iniziativa clamorosa in quell’occasione, si presentarono alla RAI e fecero una Tribuna Politica autogestita in cui denunciarono questo caso di tortura con delle gigantografie dei genitali del brigatista torturato alle spalle dell’allora On. Emma Bonino che raccontava e denunciava quello che era successo. Scrive Pannella: “Incontrai Virginio Rognoni e gli raccontai quello che saremmo andati a fare quella sera – cioè questa Tribuna Politica – Virginio mi ascoltava rabbuiato e attento e dopo un istante sbottò: Questa è una guerra e il primo dovere per difendere la legge e lo Stato è quello di coprire, di difendere i nostri uomini. La Tribuna autogestita andò in onda. Nessuno, ripeto nessuno sulla grande stampa, in Parlamento, nella Magistratura, a sinistra e a destra, sembrò accorgersene”».
C’è un muro di gomma che da decenni isola le reali verità di Stato. Quelle scomode e lasciate nel dimenticatoio, quelle che non sono state scritte da chi ha vinto, quelle di chi legge la storia come un sentiero continuato e non come un calendario che si azzera e riparte ad ogni anno che passa. Il caso di Enrico Triaca, come successo in precedenza con accenti diversi per Cesare Di Lenardo, parla di un apparato che non ha mai dismesso il suo braccio repressivo. Se dimentichiamo questa continuità, questa lettura complessiva, rischiamo di non saper decodificare l’offensiva che oggi la controparte ci presenta. Lo abbiamo detto, ma vale la pena ripeterlo. Occhi aperti e pugni stretti devono accompagnare lo smascheramento di queste politiche revisioniste.