Sgomberare Casapound? Anche no
Sono alcune settimane che una delle principali testate quotidiane di questo paese dedica una costante attenzione a un eventuale sgombero della sede nazionale di Casapound in via Napoleone III. E lo fa mostrando un evidente interessamento che è dettato certamente dagli ultimi fatti di cronaca romana ma che altrettanto evidentemente mostra un’attenzione che va ben aldilà del pestaggio subito da due cinefili dalla denuncia facile.
A questo interessante movimento giornalistico si aggiunge quello, tutto politico, annunciato proprio giorni fa dal leader di Cpi Gianluca Iannone, secondo cui è giunto il momento di tornare agli antichi splendori movimentisti e abbandonare l’avventura elettorale che non sembra aver prodotto molto di più delle costanti percentuali da ‘zero virgola qualcosa’ che perseguitano i nostri patrioti ad ogni tornata elettorale.
Evitando di cadere in facili considerazioni, e allo stesso tempo di rendere necessariamente i due fatti strettamente legati o conseguenti, almeno non più di quanto faccia, strumentalmente e con un notevole senso dell’ironia Iannone stesso, dichiarando che il “cambio di marcetta” si è reso necessario per i «pruriti liberticidi della sinistra» (l’ironia, ovviamente, è tutta nel creativo concetto di sinistra), ci limitiamo a considerarli quali fatti rivelatori di due tendenze.
Tendenze, entrambi, che ci riguardano e proprio per questo sono da considerare rispetto agli equilibri politici futuri di questa città, oltre che all’agibilità politica che ne deriverà.
Cominciamo dalla prima questione: l’improvviso innamoramento del gruppo editoriale dell’Espresso per un eventuale sgombero di Casapound. Che a Repubblica siano soliti buttare un occhio a cosa succede nei pressi di via Napoleone III non è certo una novità, come non lo è il loro sbandierare un certo antifascismo di facciata che di antifascista ha solo il nome, e che quando deve mostrare anche i contenuti, oltre al nome, crolla inesorabilmente sotto il peso della propria inconsistenza.
Piuttosto nuovo invece sembra essere il pallino per lo sgombero del quartier generale dei “fascisti del terzo millennio” nei pressi della stazione Termini. Articoli e articoletti, petizioni on-line o video appelli di giornalisti di punta scanditi con una verve che come unico termine di paragone potrebbero avere le messe domenicali di papa Francesco (che pure, in quanto a verve, sono in netta discontinuità con quelle dei suoi predecessori al soglio di Pietro) sono stati il motivo dominante, soprattutto se si guarda alla prospettiva con cui Repubblica osserva la Capitale. Ad ogni modo, ci sembra inutile girare intorno all’argomento: questo chiodo fisso per il problema Napoleone III, lungi dall’essere un interessante cambio di linea editoriale è il prodotto, o meglio, l’epifenomeno giornalistico della subdola svolta politica democratica tutta tesa a preparare il terreno a una ripresa elettorale nella sinistra riformista capitolina.
In effetti, l’operazione ‘nuova verginità del Partito Democratico’ è in atto già da un pezzo (un imenoplastica che ogni medico coscienzioso riconoscerebbe come impossibile, ma i ragazzi sono ostinati) con la sapiente regia del nuovo corso zingarettiano, e sembra ripercorrere un motivo ormai classico per il consueto recupero di voti a sinistra, vale a dire lo sbandieramento di un antifascismo di facciata, che quando deve esercitare qualche cosa di più rispetto alla leggerezza delle parole non può che affidarsi al peso della magistratura e allo zelo della divisa.
Premesso che non è necessario ricorrere al Thesaurus del movimento operaio per comprendere quanto i termini antifascismo e magistratura, forze dell’ordine o repressione (si scelga il termine che si vuole per definire gli apparati dello Stato) siano antitetici, non appare scontato ribadire il concetto secondo cui qualunque iniziativa tesa a risolvere un problema sociale e dunque politico (e forse il caso del fascismo nelle sue molteplici forme lo è per eccellenza) per via giudiziaria, oltre ad essere inaccettabile in via di principio, non può che ritorcersi contro gli stessi che l’abbracciano.
Sia chiaro, non ci riferiamo a coloro che sono normalmente avvezzi a frequentazioni questurine per una storia di lungo corso (democratici e affini), ma a chiunque, anche se non immediatamente riconducibile alla sinistra antagonista, si proponga di combattere il fascismo come fenomeno politico, quindi complesso, e che necessita di adeguate risposte politiche.
Dunque, oltre a risultare semplicemente nauseante qualsiasi discorso che per parlare di antifascismo tenti di passare attraverso lo Stato, lo stesso discorso finisce per essere politicamente miope e immediatamente autodistruttivo, e questo cruccio per lo sgombero di Casapound dei democratici potrà dirci qualcosa in proposito.
Prima però passiamo alla seconda novità: l’annuncio di qualche giorno fa con cui Gianluca Iannone ha comunicato alla nazione il ritorno a fase primordiale dell’ormai defunto partito CasaPound Italia e il riconoscimento dell’esperienza elettorale come fallimento.
Stando alle dichiarazioni del presidente di Cpi, una simile operazione appare come il lucido calcolo (o probabilmente rassegnato calcolo, viste le percentuali di voto cui è legato cronicamente il fu partito) seguito al flop delle elezioni europee (un miserabile 0,3%).
Ben più lucido appare il calcolo se viene compiuto alla luce dell’inesorabile processo di fagocitazione a cui l’elettorato di destra è stato soggetto con il successo salviniano. Figuriamoci: la Lega di Salvini ha risucchiato voti un po’ ovunque, volevate che non facesse carne di porco di quei quattro mentecatti che vedendo Di Stefano in uno dei suoi numeri televisivi si erano quasi convinti a regalargli il voto? La tendenza, dunque, appare chiara: con un partito come quello salviniano in ascesa e saldamente al governo qualsiasi ipotesi elettoralistica, per quanto il volto giovane di Di Stefano possa farneticare di future rivoluzioni nazionali fatte di formidabili rifondazioni 4.0 dell’IRI o incredibili (ri)conquiste del territorio libico (video) per impossessarsi nuovamente dell’italianissima “quarta sponda” (e a quel punto attenderemo con ansia l’annuncio della riconsegna della “spada dell’islam” a chi di dovere), risulta come velleitaria e controproducente. Meglio tornare al vecchio lavoro di strada e, molto più prosaicamente, a farsi i cazzi propri (ovvero continuare a fare quello che non hanno mai smesso di fare, come alimentare la ben nota economia dentro e soprattutto intorno a CasaPound, in questo caso con rinnovata foga).
Non più partito di “lotta” e di “governo” come cercavano di accreditarsi fino a poco tempo fa, alla disperata ricerca di una legittimazione democratica – cosa che la quasi totalità del mondo giornalistico mainstream aveva accolto di buon grado, salvo poi ritrovarsi, come qualcuno, con il naso rotto – che valeva anche una leggera flessione della postura più dura e di strada che ha da sempre caratterizzato il loro modus operandi, ma un ritorno ai fasti movimentisti, al momento primordiale e creativo dell’«attività culturale, sociale, artistica, sportiva di Cpi, nel solco di quella che è stata da sempre la nostra identità specifica e originale» magari mettendo in conto – e qui probabilmente risiede tutto il valore del mutamento tattico – che la possibilità di sfogare i loro impulsi elettorali è sempre stata accolta a braccia aperte dal confortante schieramento partitico di centro destra (a maggior ragione adesso, con un partito come quello salviniano i cui storici rapporti di collaborazione e subordinazione sono ben noti). Come precisato ieri da Di Stefano su “la Verità”: «Il tempo dei presidi contro i centri di accoglienza è finito» e «non ci saranno [più] alleanze tra Cpi e altri partiti, ma è possibile che esponenti di Cpi decidano di fare politica elettorale sotto altri schieramenti». Tradotto: visto che la sporca manovalanza da istigatori nelle borgate si converte ad ogni scadenza elettorale in voti allo schieramento salviniano, e il tutto “a gratis”, tanto vale “svoltarci” qualcosa.
Dunque, ricapitolando, ecco un rinnovato impegno per far fiorire i bilanci di Casapound s.r.l. e una selettiva azione di rappresentanza nelle comode fila dell’universo reazionario italiano, unita magari al consueto servizio di manovalanza cui l’organicità a un soggetto politico garantisce: questa sembra essere la nuova fase tattica annunciata a mezzo stampa.
Niente a che vedere con i «pruriti liberticidi della sinistra». Tutto a che vedere con i pruriti politico-elettorali di una forza elettoralmente fallimentare. D’altra parte, però, come dicevamo poc’anzi, i «pruriti liberticidi della sinistra» possono dire qualcosa di più a noi; soprattutto se consideriamo seriamente la possibilità dello sgombero di Casapound da una parte come opportunistico momento di ricerca del consenso da parte di un PD a caccia di nuove sponde, e da un’altra come eventualità calata in un contesto relativamente nuovo, questo sì liberticida, ovvero il nuovo corso salviniano, esemplificato nei vari decreti sicurezza e nei provvedimenti che trovano la loro matrice, ci teniamo a ricordarlo, nella stagione inaugurata dal signor Minniti.
Quando si prende in considerazione un’eventualità del genere e si valuta il gran rullo di tamburi con cui Repubblica e soci accompagnano l’evento, occorre tenere ben presente che dall’approvazione del decreto sino a oggi, quando si parla di sgomberi si parla di una lista di 24 spazi e stabili che sono comodamente in lizza per essere soggetti alla legge dello Stato. Quando si prende in considerazione un’eventualità del genere, posta l’ipotesi che questa si verifichi – e ovviamente la realizzazione non è scontata, viste le costanti doti di resilienza e le altrettanto consuete coperture mostrate negli anni – va da sé che la prassi operata con uno sgombero del genere sarà valida erga omnes, per tutti, nessuno escluso.
Sebbene sia veramente difficile nascondere il piacere che sopraggiunge non appena l’idea di una via Napoleone III completamente igienizzata prenda corpo, è necessario chiarire che qualsiasi iniziativa volta a debellare un problema simile che non passi per le strade di Roma, che non prenda corpo in una prassi antifascista che è proposta politica militante e risposta politica militante, ma si affidi a qualsiasi altra facile o opportunistica scappatoia, non può che rivelarsi sterile, inefficiente e soprattutto controproducente.
Non scambiamo battaglie politiche strumentali e passeggere – per altro smorzate da chi veramente sta al governo, come la Raggi, che si è limitata a una timida quanto dubbia operazione di decoro urbano, intimando la rimozione dell’insegna di via Napoleone III – per quello che non sono. L’unico antidoto a un fascismo che si propone con nuove formule e modalità è un antifascismo che risponde anch’esso con nuove formule e modalità: questo ci deve suggerire il “cambio di marcia” appena annunciato (anche se queste modalità non sono poi così tanto nuove). Finché non si risponderà in modo adeguato e con strumenti adeguati al “fascismo del terzo millennio”, questo rimarrà in piedi. E dovremmo diffidare di chiunque si proponga di sradicarlo al posto nostro.