Spettri di una “sinistra” che tifa polizia
Intendiamoci: che dopo il fatto eclatante della testata Roberto Spada venga fermato dalle forze dell’ordine e indagato dalla Magistratura, rientra nella normalità di uno Stato di diritto, sebbene per l’occasione abbiano dovuto inventarsi la fattispecie delle «lesioni in contesto mafioso». Per molto meno molti di noi ancora scontano condanne e processi, euro buttati nel calderone di una giustizia che sa dove e come accanirsi. Fatta questa premessa, l’episodio certifica il baratro in cui è sprofondata la sinistra in questo paese, l’idea di sinistra più che i partiti o movimenti che la compongono. L’arresto è stato accolto da un giubilo trasversale, un finalmente pensato ed espresso sui social, nell’ennesima improbabile e farsesca riproposizione stantia e fuori dalla storia di un fronte antifascista in cui troverebbero posto guardie e giornalisti. Noi ce ne chiamiamo da subito fuori: in tutta la vicenda il problema è il giornalista, non Roberto Spada; il problema sono le guardie, non i “clan”; è la politica, non la strada. E’ il giornalismo come perversione parassita, che si avventa sulla carcassa dell’evento per darlo in pasto a un’opinione pubblica educata da decenni di condotta mediatica criminale. Un giornalismo che ha posto la virtualità della narrazione sulla realtà dei rapporti di forza. E la conferma arriva proprio dal servizio costruito da Daniele Piervincenzi per Nemo, andato in onda ieri su Rai 2. Un racconto onirico ed apologetico del fascismo che regala pacchi di pasta alle vecchiette. Il problema vero è che a regalarci una testata che sa di liberazione è un criminale colluso coi fascisti e non “uno di noi”. Ed è un problema serio perché nella strada, a Ostia come nel resto della periferia cittadina, quella testata è il simbolo di una rivincita della periferia contro tutto ciò che viene identificato, giustamente o meno, col “palazzo”. E la sinistra è corsa a chiudersi in questo palazzo, ha sbarrato le porte ed è salita velocemente ai piani nobili, plaudendo al “giornalismo”, alla pronta reazione della Polizia, alle parole di Gabrielli, allo sdegno dei Gentiloni&Mattarella, in sostengo della casta – questa si reale – dei giornalisti, che domani imbratterà Ostia con la squallida pantomima della “solidarietà” al collega ferito. Puro istinto di classe: quando c’è da prendere una posizione non ragionata, l’istinto porta questa sinistra sempre e comunque dalla parte del potere.
Ma in questa dinamica pervertita a perderci saremo sempre e comunque noi. Una sinistra rifugiata nelle redazioni e nelle questure non è solo il nemico da combattere, ma rafforza retrospettivamente ogni tipo di destra, soprattutto quelle più radicali o sociali. E così da una parte quel mondo sinistrorso mediatico legittima e contribuisce al rafforzamento del neofascismo presentandolo come post-fascismo; dall’altra gli regala la strada, i suoi rapporti contraddittori ma essenziali. In tal senso a dover essere disattivato perché ormai inservibile e dannoso è l’antifascismo da Prima Repubblica, l’antifascismo dell’arco costituzionale, il “fronte comune” contro il fascismo. Quel fronte comune era un fronte *popolare*, oggi si è tradotto in fronte delle élite contro il vasto, complesso e ambivalente mondo dei subalterni. Sbrogliare questa matassa è compito titanico: la “strada” odierna è popolata da un sottobosco malavitoso e prepotente con cui si vorrebbero avere meno legami possibili. Ma fuori dalla narrazioni edificanti, la domanda spontanea è questa: non è sempre stato così? Nelle banlieue di tutta Europa non è questo lo stato dell’arte con cui fare i conti? Nelle periferie italiane del Novecento non erano sempre e comunque questi i rapporti materiali con cui dover fare i conti? Nei sobborghi americani presidiati dal Black Panther Party, nelle baraccopoli di Caracas o di Buenos Aires dove ha covato il socialismo del XXI secolo, nelle casbah del Fln, quale era il paesaggio sociale di riferimento, quello di un proletariato cosciente in attesa di organizzazione o, più realisticamente, quello di rapporti sociali complessi ed equivoci, duri da digerire ma necessari alla propria sopravvivenza? La periferia è questo, è sempre stata questo. Saperci stare è un’arte militante completamente dispersa. Ma volerci stare, questo rientra nei doveri del comunismo. Fosse solo per l’istinto di non stare dalla parte dei Saviano e dei Don Ciotti, dei Formigli e dei Mentana, dei Gabrielli e dei D’Alema.