Sul fenomeno Bello Figo, ovvero: ma quanti sono gli analfabeti massmediali in Italia?
Su Bello Figo potremmo avanzare le peggiori interpretazioni sociologiche, filologiche o culturali. A prescindere dalla qualità della sua musica, i suoi versi smascherano (o vorrebbero smascherare) l’universo dei pregiudizi comuni sulla vita dei migranti in Italia: vengono spesati dallo Stato; non pagano l’affitto; vogliono il Wi-Fi gratis; eccetera. E’ uno svelamento spiazzante, per varie ragioni: perché avviene da un migrante, per giunta nero; perché procede per antifrasi, costringendo chi ascolta a chiedersi costantemente se ciò che sente ha un significato diretto o ironico; perché ribalta e demolisce il buonismo in cui sono confinati i migranti quando parlano della propria esperienza. Bello Figo ci dice invece che l’arma del cinismo e del sarcasmo caustico può essere impugnata anche dall’africano, dal migrante arrivato col barcone, dal nero. Che piangersi addosso non è l’unico linguaggio possibile per quelle popolazioni, anche loro alla ricerca di una lingua nuova per farsi riconoscere. Tutto ciò, converrete, è terrificante: tanto per il razzismo dominante quanto per la carità cristiana, le due forme ideologiche dell’accoglienza migrante.
Ciò che però è evidente di tutta l’operazione di Bello Figo è la sua manifesta volontà di provocare denunciando una mentalità razzista trasversale e bigotta. Perché, allora, questa manifesta, lampante, diretta volontà di provocare non è stata immediatamente colta, e anzi ancora oggi le destre di tutto il paese (e quindi anche molta “sinistra”) si affannano ad insultarlo come se i suoi versi volessero davvero affermare ciò che dicono direttamente? Possibile che nel vasto corpo della cultura massmediatica italiana, dopo decenni di studi – senza stare qui a scomodare Eco e certa semiologia – ancora si possa cadere nel tranello di scambiare un messaggio ironico per reale presa di posizione? Sembra incredibile, ma è proprio così: gli analfabeti massmediali, in uno dei paesi (una volta) all’avanguardia nella decostruzione semiologica e politica della comunicazione di massa, sono ancora la maggioranza della popolazione. Di più: sono ancora la maggioranza nel mondo della cultura. Ancora peggio: sono la maggioranza nel mondo della stessa informazione di massa, nel giornalismo, nella televisione. In Rai, su Repubblica o sul Corriere della Sera capita ancora di trovare qualcuno che non capisce un linguaggio retorico antifrastico. Nel 2017. Perché? Per due ragioni, almeno ci sembra. La prima: il razzismo. Sembra scontato ma è così. Perché se Antonio Albanese interpreta Cetto Laqualunque, riconvertendo un tipico e realistico linguaggio politico, cogliamo immediatamente l’ironia sottointesa, mentre se lo fa Bello Figo ci chiediamo cosa voglia davvero dire? Perché non siamo abituati, perché quel livello di denuncia lo possiamo consentire solo da qualche “connazionale”, ma non da un immigrato che prende per il culo degli “italiani”. Destabilizza un frame in cui proviamo a incasellare quello che ci aspettiamo dalle persone-ruoli: il nero può al massimo piangere sulla sua condizione, non prendere – e prendersi, attenzione – per il culo. La seconda: il razzismo, nuovamente. Al migrante è concesso, e unicamente per volontà istituzionale, il raggiungimento dei bisogni primari (casa e cibo, quando va di lusso); ma l’universo dei bisogni secondari? E l’universo dei bisogni superflui? Anche qui, ad uscirne demolito è certo razzismo buonista per cui il migrante ci sta simpatico se ha perso moglie e figli, viene da qualche territorio martoriato dalla guerra e chiede solo un luogo dove vivere. Se invece le sue richieste si avvicinano pericolosamente a quelle che potrebbe avere un “italiano”, ecco scattare il riflesso pavloviano: ma come si permette! Gli diamo cibo e un tetto e quello vuole pure magari una donna (o un uomo); vuole la connessione internet, il negro; non gli basta avercelo lungo e la musica nel sangue? Vorrebbe uscire la sera, magari ubriacarsi, la scimmia? A lavorare. Il problema è che quei migranti non chiedono altro: un lavoro. Ma in sua assenza, non si accontentano di una vita di privazioni. D’altronde, ancora non si è visto un “italiano” disoccupato che si priva della sua uscita con gli amici, bevendo, magari drogandosi, solo perché senza lavoro. Ci si arrangia. Ma se ad arrangiarsi è il negro, crolla tutto lo schema culturale che abbiamo stabilito nella testa. E allora ce la prendiamo con le canzoni volgari(!), con gli atteggiamenti sessuali(!!), con la strizzatina d’occhio alla criminalità(!!!). Queste sono cose da Fedez, non da migrante. Non capovolgiamo i ruoli sociali, per favore.
Ma questo analfabetismo massmediale assume dimensioni astronomiche nel caso delle destre scese in campo contro i concerti di Bello Figo. Che fino a ieri era un anonimo youtubers cliccato migliaia di volte nel sottobosco virtuale della rete dove nascono, prosperano e muoiono nel giro di pochi mesi i più improbabili personaggi in cerca di visibilità. E invece, nella più classica eterogenesi dei fini, la mobilitazione delle destre ha reso Bello Figo non solo un simbolo dell’antirazzismo e addirittura dell’antifascismo (questione, la seconda, a lui probabilmente ignota), ma un fenomeno mediatico di massa, invitato in televisione, nei concerti, intervistato e ascoltato. Hanno fatto di Bello Figo un simbolo, e coi simboli bisogna andarci cauti. Ogni concerto impedito moltiplica la popolarità del cantante ghanese, rendendo macchiettistico e anacronistico ogni tentativo reazionario di silenziarlo. Nell’epoca della viralità massmediale l’unico strumento possibile per censurare un dato contenuto è spezzarne la viralità, appunto. Non moltiplicarla, riempiendola addirittura di significati mitopoietici. Ma tutto questo, il razzismo sottoculturale del paese ancora non riesce a capirlo. Stupefacente. E’ un analfabetismo funzionale che innalza un muro di incomprensibilità tra una generazione ormai avvezza a certe forme comunicative (che investono sia il contenuto che il mezzo attraverso cui viene veicolato un messaggio) e un elefantiaco apparato politico e mediatico ancorato a forme ormai preistoriche della comunicazione di massa. Soprassediamo sulla natura artistica di Bello Figo. Ma in quanto alla politicità, il rapper ha vinto la partita, trasformandosi in un simbolo.