Tortura e anni Settanta: una risposta a Francesco Barilli

Tortura e anni Settanta: una risposta a Francesco Barilli

 

Qualche giorno fa Francesco Barilli ha scritto un lungo commento sulla vicenda delle torture di Stato e della lotta armata (qui). L’ha fatto prendendo spunto dall’appello del comitato La tortura è di Stato! Rompiamo il silenzio, analizzando proprio quell’appello e soffermandosi su quei punti che non lo convincevano e che gli sembravano politicamente discutibili. Vorremmo qui dare una risposta articolata a quei dubbi, perché evidentemente necessitano di maggiore chiarezza. Soprattutto, perché ci sembra chiara la volontà dialogante, che ci da anche modo di spiegare al meglio le nostre posizioni e le nostre intenzioni. Chiariamo però come si tratti di una posizione nostra e non di tutto il comitato, e di come queste che seguono siano le nostre riflessioni che ci hanno accompagnato in questi anni.

Come abbiamo scritto altre volte in merito, uno dei nostri obiettivi appoggiando e promuovendo il comitato è quella di parlare di anni Settanta, dei risvolti meno comodi da trattare e che in questi anni sono stati completamente rimossi. Crediamo che per lunghi anni quelle lotte di classe siano state schiacciate da una doppia visione, in estrema sintesi speculare: da una parte lo Stato e le forze della legalità, che le hanno lette esclusivamente in termini di terrorismo, vero o potenziale. Il tentativo storicizzante dello Stato è stato quello per cui c’è stato un ciclo di lotte che covava in se i germi del terrorismo, che poi si è effettivamente espresso in quel modo, e che lo Stato ha combattuto con tutti i suoi mezzi. Anche l’illegalità degli strumenti statali rientrava comunque nel tentativo di ripristinare lo Stato di diritto, dunque era in ogni caso a fin di bene.

L’altra lettura dominante in questo senso è quella che definiremo, per necessità di sintesi, movimentista. Questa lettura analizza quegli anni come grande movimento di massa, costretto sul piano della violenza unicamente in risposta alla repressione statale, e che da un certo punto in poi ha dovuto fare i conti con la lotta armata, che ha messo in crisi quei movimenti e che ne ha determinato la fine, o quantomeno la ghettizzazione politica. Una parte di chi vede le cose in questo modo considera le organizzazioni armate come direttamente manovrate dallo Stato o dai suoi servizi, volte proprio a scomporre e scardinare quei movimenti, utilizzandole infine come grimaldello per attuare una repressione generalizzata. Un’altra parte invece considera quelle organizzazioni “sincere”, cioè nate effettivamente dalla volontà di alcuni compagni di fare un passo avanti (o indietro) nello scontro di classe, ma non per questo meno dannose e colme di errori politici, errori che poi si riversarono sul movimento in generale decretandone la sconfitta. Oltretutto, anche soggettivamente sincere, tali organizzazioni vennero immediatamente strumentalizzate dallo Stato, che se ne servì per colpire ogni ipotesi rivoluzionaria. 

Queste due letture ci sembrano appunto speculari nel tentativo di relegare la conflittualità politica, espressa anche in termini di violenza, a evento esterno a quei movimenti, a episodio “calato dall’alto” (sia dall’alto dello Stato che dall’alto di compagni fuori dalla realtà). La versione racchiusa nella parola d’ordine Né con lo Stato né con le BR sintetizza appunto questo. Stato e BR (dove per BR è chiara la sineddoche per lotta armata in generale) sono ipotesi ambedue fuori dal movimento e opposte ad esso. Costituiscono un corpo estraneo, e come tale da rigettare politicamente.

Questo il motivo per cui la lotta armata, e più in generale l’uso della forza, vivono una generale rimozione politica. Rimozione non nel senso che non se ne parla, ma perché se ne parla male, come qualcosa esterno ed estraneo a quel ciclo di lotte, sostanzialmente opposto ad esso.

Il nostro obiettivo politico, che portiamo avanti anche con questa campagna ma più in generale con ogni discorso su quegli anni, è che invece quelle lotte di classe si espressero anche in quei termini, e che quando lo fecero non ebbero solo la legittimità politica nel farlo, ma ebbero anche un seguito di massa non indifferente. Ebbero legittimità perché tutto il movimento, in quegli anni, si esprimeva anche con le armi. Quando il 12 marzo del 1977 una larga parte del corteo sfonda le vetrine di un armeria per rifornirsi di armi, non lo fa per “allargare il consenso sociale” del movimento, ma per armarsi in vista di uno scontro a fuoco con lo Stato. Lasciar intendere che siano state le organizzazioni armate a militarizzare ed inquinare quel movimento è un falso storico, e dimostra come la violenza armata contro lo Stato non sia un bubbone calato sul movimento, ma il suo sviluppo autonomo, peraltro derivante da molto prima del ’77 (o pensiamo che i fratelli Mattei, Calabresi, Mantakas, il ‘76 milanese non siano episodi di lotta armata?), e che vide in quell’anno semmai il suo momento di maggiore ampiezza.

Il seguito di massa delle BR nelle fabbriche e fra i lavoratori non è cosa che scopriamo oggi. Tutta la linea della fermezza del PCI è basata su questo assunto. La paura del PCI fu proprio quella di “perdere le fabbriche”, come disse Lama (col senno di poi, ricordando il sequestro Moro), se avesse tenuto un atteggiamento dialogante. La paura della dirigenza comunista, che senza dubbio aveva il polso della situazione delle fabbriche, è la miglior prova storica di come quel tentativo era lungi dall’essere slegato con le dinamiche di massa o recluso negli anfratti dell’avanguardismo fine a se stesso. Era l’egemonia comunista nelle fabbriche la questione, e la paura del “più grande partito comunista d’occidente” non era certo immotivata.

Questo nostro tentativo di storicizzare questi fenomeni avvenuti all’interno dello sviluppo dei movimenti degli anni Settanta non costituisce invece la difesa a spada tratta di quelle esperienze. Non è insomma un’opera di esaltazione che ci interessa fare, ma capire quel movimento, gli errori e i suoi sviluppi, per poter fare politica oggi. Soprattutto, non vogliamo con questo affermare che la lotta armata sia stata sconfitta solamente perché si è trovata di fronte uno Stato più forte, che smise di giocare alla democrazia liberale e mostrò la faccia feroce del capitalismo. Il ciclo di lotte di classe degli anni Settanta si spense anche per errori propri, di valutazione e di strategia politica, e non seppe rispondere alla vasta riorganizzazione dello Stato sia in chiave economico-sociale che politico-repressiva. E’ una sconfitta politica quella a cui andò incontro quel movimento, e non una sconfitta militare. Perché dalla sconfitta militare ci si può sempre riprendere, mentre la sconfitta politica sedimenta un vuoto difficilmente colmabile nel breve periodo. Quel breve periodo lo stiamo ancora vivendo, ed è dimostrazione di come quella sconfitta sia stata politica e – soprattutto – non sia ancora stata metabolizzata. Metabolizzare quegli anni è l’unico modo per tornare a fare politica oggi. Rimuoverli invece è il modo sbagliato, perché la storia presenterà sempre quel conto che ha presentato quaranta anni fa, e se non si elaborano gli strumenti per farvi fronte si ricadrà nell’inevitabile sconfitta. Certo, queste sono riflessioni apparentemente astratte nel contesto pacificato di oggi, ma laddove invece quel livello di tensione mira a crescere, come in Val di Susa, quel movimento deve rispondere alle stesse dinamiche storiche degli anni Settanta (e che ancora prima erano della Resistenza).

Dice Barilli: Oltre a dire no alla tortura, si vuole ridare dignità alla lotta armata. Ma lo si vuole fare al di là della ragionevolezza. Allora no, non ci siamo

Ecco, noi crediamo che “ridare dignità alla lotta armata” non significhi stare qui ad esaltare quei tentativi rivoluzionari, ma articolare un pensiero che spieghi perché quei tentativi rientravano, in quel preciso contesto, nello sviluppo coerente di quel movimento. Non l’unico sviluppo possibile, ma, date le circostanze, uno sviluppo probabile, in linea con le posizioni politiche delle varie organizzazioni di movimento di quegli anni. La stessa organizzazione che poi espresse la famosa parola d’ordine Né con lo Stato né con le BR era la stessa da cui covarono e uscirono fuori vari esperimenti di lotta armata, e che in tutti gli anni in cui fu in vita ebbe una politica conseguente a quello sviluppo. Lavarsene ora le mani, col senno del poi, è una operazione politica discutibile e certamente un tentativo storico che non sta in piedi.

Continua Barilli: Non è che per riportare a galla le torture si debbano cancellare le degenerazioni della lotta armata: sarebbe una sorta di revisionismo speculare

Su questo siamo d’accordo, ma dipende da quale punto di vista viene il monito. Se di quell’esperienza ne abbiamo una visione storica senza pregiudizi e tentativi revisionisti, possiamo discutere a lungo dei molti errori delle Brigate Rosse e della lotta armata in generale. Ma il nostro appello non è rivolto solo a dei compagni già coscienti di questo. Non stiamo insomma intavolando una discussione fra eruditi o reduci di quell’esperienza. Il nostro appello è diretto a tutti coloro che ancora considerano lo Stato un attore eticamente superiore, e che con la legalità ha ripristinato la sua autorità “contro il terrorismo”. Verso questo vasto pubblico, il compito principale non è disquisire delle varie politiche di movimento, ma chiarire che lo Stato si comportò come, se non peggio, quelle espressioni di movimento. Il nostro tentativo è quello di affermare che in quegli anni era in corso una guerra civile, con numeri da guerriglie sudamericane, con  migliaia di compagni in carcere, con bombe e attentati in giro per l’Italia compiuti dallo Stato, con una repressione che non aveva nulla da invidiare a quelle dei vari colonnelli, tenenti o dittatori in giro per il mondo, e che soprattutto si serviva della tortura come strumento usuale per l’estorsione delle informazioni. Uno Stato sotto attacco da quel tentativo rivoluzionario, e che come ogni potere costituito difende se stesso utilizzando tutto i metodi, canonici o meno.

Ma soprattutto, predisporre politicamente il pensiero a una delle rimozioni di questi anni. Quella cioè che, quando le lotte di classe superano il livello fisiologico della gestibilità, la violenza politica è una delle probabili conseguenze di questo scontro. Non c’è margine per istinti umanitari che individuano nel singolo individuo la causa delle malefatte di un apparato. E’ l’intero apparato, espressione di un potere di classe, che determina questa evoluzione in risposta alla violenza opposta di un altro potere di classe, quello del movimento operaio alla ricerca della sua liberazione. Fra questi due poteri storici, come direbbe Marx, a vincere continua ad essere la forza.