Tunisia. Diario e riflessioni dalla rivolta (II)
Nell’aprire questo primo focus (II appuntamento del Diario) sull’esperienza vissuta dalla carovana tunisina, non possiamo tacere quanto sta avvenendo in questi giorni nel panorama mediorientale. Parlare dei venti di rivolta del Nord Africa o del nuovo, ennesimo, stato d’assedio che cinge la città di Gaza – e tutta la striscia – non è la stessa cosa, lo sappiamo; ma la rabbia politica e la forte solidarietà che ci spingevano ad affrontare ambo le dimensioni, oggi sono ferite, mutilate, diverse. Non possiamo aprire questo post senza ricordare, nuovamente, quanto la perdita di un uomo come Vittorio sia un sottrazione umana e politica che sconvolge oltre ogni pronostico. Manca la variabile in questa algebra politica, quella variabile che era lo spirito di Vittorio: l’equazione mediorientale, orfana di questo fattore importantissimo, stenta ulteriormente a trovare una definizione. Nei giorni in cui aspettiamo di poter salutare il corpo di Vittorio, c’è una certa difficoltà a parlare di mondo arabo; ma l’abbandono o l’ignoranza di quello che è stato il suo percorso sarebbe l’ultimo errore da compiere, forse anche il più grande. Per questo, continuiamo a parlare di cosa cambia nel mondo arabo; di come cambia la società civile, e di quale dibattito si sia dotata in questa fase.
Tunisi, la capitale: prima tappa…secondo tempo
Nello scorso post dedicato all’esperienza della carovana avevamo accennato agli incontri che abbiamo avuto modo di fare nelle giornate iniziali di questo viaggio. Mettendo meglio a fuoco quelle prime giornate, abbiamo notato il grande slancio generazionale che ha mosso le lotte nel paese. Su questa premessa vorremmo subito cercare di chiarire. Quello che da noi è stato uno dei leit motiv delle proteste autunnali, in Tunisia è una situazione che caratterizza da anni l’intera lotta politica; motivo per cui l’essenza prima delle rivolte non può essere rintracciata nella sola presenza di una componente “giovane” – sia pure maggioritaria se non assoluta. La mancanza di una progettualità futura e l’impossibilità di poterla pensare a priori (a causa di una crescita economica che stenta a prendere quota, e che ora – dopo lo stallo degli ultimi mesi – rischia l’inabissamento) sono fattori che hanno indotto le nuove generazioni ad una mobilitazione la cui intensità ha raggiunto il suo culmine con il ciclo di proteste del 2008, vero e proprio epicentro del cataclisma politico avvenuto pochi mesi fa. La ragione centrale della protesta è stata infatti riconosciuta nei movimenti di tre anni fa; un fattore che ha mantenuto un’importanza fondamentale per almeno tre ragioni.
Prima di tutto, la rivolta del 2008 è stata “sponsorizzata” da una delle categorie lavorative più subordinate del panorama tunisino: ovvero, quella dei minatori. Un braccio di ferro con il governo che – passato inosservato sui nostri canali di informazione – ha prodotto 7 mesi di scioperi quasi ininterrotti, centinaia di feriti nelle manifestazioni di piazza e 7 morti (tutti della provincia di Gafsa). Se a questo affianchiamo la funzione fondamentale demandata agli scioperi durante il processo di destituzione di Ben Ali, l’overture de la révolte (come la chiamano in Tunisia) dei minatori ha resistito alla promulgazione di una legislazione antisciopero di emergenza, garantendo la possibilità – nei mesi scorsi – di poter ancora usufruire di questo strumento di agitazione politica.
In secondo luogo, la rivolta tunisina è stata caratterizzata da un forte decentramento geografico. A differenza di quanto avvenuto nel vicino Egitto e rispetto a quanto siamo normalmente abituati a vedere, la Tunisia ha mostrato i denti partendo dalle regioni del sud. Quello stesso sud che a gran voce ha denunciato la fitta rete di corruzione e favoreggiamenti imputabile alla moglie di Ben Ali, Leila Trabelsi, e attraverso la quale si stava perfezionando il forte processo di esternalizzazione di imprese internazionali in territorio tunisino. Non è un caso che questa denuncia iniziale abbia in qualche modo partorito uno dei cavalli di battaglia della protesta quando i movimenti sociali hanno iniziato ad allargare la loro influenza sull’intero territorio nazionale; ci riferiamo, infatti, alla denuncia di amministrazioni regionali e comunali interamente affidate a quadri alle dirette dipendenze di Ben Ali che tutt’oggi continuano ad esercitare la propria funzione dopo essersi “riciclati” nei giorni delle rivolte. Un rischio che metterebbe la Tunisia di fronte all’impossibilità di procedere ad un netto e doveroso taglio con il regime precedente, affievolendo e narcotizzando l’impronta giustizialista che muove gran parte dei rivoltosi.
Terza ed ultima ragione che pone come cardine della rivolta i fatti del 2008: i flussi migratori interni. La spinta verso nord della protesta ha proceduto di pari passo con un’impennata dei flussi migratori interni, dovuti alla latente impossibilità di trovare un impiego nelle regioni a sud di Tunisi. Una tendenza che si è poi mostrata in tutta la sua drammaticità con lo scoppio del conflitto libico ed il conseguente rimpatrio di molti tunisini (oltre l’80% dei rifugiati provenienti dalla Libia non sono libici, ma stranieri insediati per motivi di lavoro) che hanno – dapprima – sovraffollato le regioni meridionali e – successivamente – si sono spostati verso la capitale.
La centralità assunta da quello che potremmo definire come un vero e proprio “fenomeno Sud” spiega il perché del “ritardo” registrato nella sponda nord del paese e nella capitale Tunisi in particolare. Il fatto che quest’ultima sia stata successivamente agitata da forti momenti di tensione e di protesta, non esclude il fatto che l’attività della capitale sia stata un vero e proprio “secondo tempo” della rivolta. Parlare, dunque, della rivolta tunisina significa porre al centro del dibattito una fase di protesta quantificabile in almeno tre anni, che ha visto un progressivo concentramento di forze nel sud ed una graduale crescita di influenza nel resto del paese a partire dal 2011; su quest’ultimo fattore, poi, pesano due importanti fattori che sono – ribadiamo, appunto – la contemporaneità di altre sommosse nel Maghreb e nel Mashreq e l’impennata dei flussi migratori interni dopo l’inizio del conflitto libico.
*** FINE PARTE II ***