Un contadino comunista nelle lotte di classe degli anni Settanta
Difficilmente una singola vicenda biografica è capace di racchiudere ed esemplificare un processo storico complicato e sfuggente, come ad esempio le lotte di classe in Italia degli anni settanta del novecento. Pochi anni sono passati, e un potere politico ancora troppo legato a quelle vicende, troppo ideologicamente ostile ad una loro ricostruzione storica, rende impossibile ragionare su cosa sia avvenuto politicamente in quegli anni. La vita di Prospero Gallinari, invece, riesce a descrivere perfettamente il senso di quel movimento storico di assalto al cielo che le classi subalterne tentarono per tutto l’arco dello scorso secolo. Sacrificandosi ed emancipandosi, con le loro contraddizioni e le loro tragedie, fino a scontrarsi con un potere che si è dimostrato più forte ma non per questo imbattibile. In anni in cui va di moda costruirsi un proprio passato di riferimento, nel nostro personale Pantheon politico Prospero Gallinari regge una delle colonne portanti. E i compagni come lui sono il cemento e il marmo con cui si regge quel Pantheon, senza il quale è perfino inutile occuparsi di riferimenti storici.
Come abbiamo detto, un serio dibattito pubblico di ricostruzione delle vicende politiche del ventennio 1960-1980, al momento è fuori discussione. La categoria dell’ordine pubblico è l’unica cornice culturale entro cui poter narrare quegli accadimenti. Le testimonianze dei parenti delle vittime borghesi, le uniche testimonianze possibili. A braccetto di qualche residuo dissociato che oggi si gira dall’altra parte e cerca di smarcarsi dalle sue responsabilità, umane e politiche. Prospero invece non si è mai girato, si è assunto tutte le sue responsabilità fino alla fine, una coerenza che lo ha portato a scontare la sua pena per intero. Solo i postumi dello scontro a fuoco del 1979 lo hanno portato, dopo diversi arresti cardiaci e una lunga battaglia dentro e fuori le carceri, a concedergli i domiciliari negli ultimi anni della sua vita. E come per tutti i combattenti politici degli anni settanta, l’impossibilità di leggere quegli avvenimenti entro un contesto politico più ampio ha reso impossibile comprenderne le motivazioni, relegando quei compagni a rango di delinquenti comuni e discutendo in tale ottica le loro scelte.
Eppure, c’è una storia diversa che va ribadita, oggi più che mai, visti i tentativi – vincenti – di dimenticare coscientemente quegli anni. Non iniziarono certo i movimenti operai con le stragi nelle piazze e nei treni. Non furono certo i collettivi politici che massacrarono i lavoratori a Portella della Ginestra. Non fu certo una decisione popolare lo sradicamento sociale del sud Italia che andò a formare la nuova classe di schiavi moderni nelle fabbriche del nord, sotto il rigido controllo padronale della FIAT di Valletta e di tutte le altre fabbriche piene di mano d’opera migrante, ricattata e sottopagata, carne viva che rese possibile lo sviluppo economico del dopoguerra. Non fu certo comunista l’ipotesi di un colpo di stato, che le destre più o meno “presentabili” tentarono ben due volte dopo la caduta del fascismo. E infine, non fu certo da parte nostra che si organizzarono convegni e studi strategici sulla strategia della tensione e la guerra preventiva al comunismo. Il tutto, in un contesto politico che non fece mai i conti con la propria storia, riproponendo ai vertici economici e istituzionali quelle stesse persone che rappresentarono, durante il fascismo, quella burocrazia laida e ossequiante che ne permise la conservazione.
Tutto questo è ignorato da chi dipinge i combattenti comunisti degli anni ’60 e ’70 come delinquenti comuni spuntati fuori dal nulla e senza consenso sociale, fomentati da utopie assassine e come assassini trattati.
Ben da prima che la cosiddetta violenza politica divenne patrimonio comune dei collettivi, c’era una violenza dello Stato – preventiva, sia detto chiaramente – che preparò il terreno per uno scontro che divenne inevitabile. Uno scontro preparato e incoraggiato proprio dai padri (ideali e reali) di chi oggi nasconde le sue responsabilità storiche di quel contesto, condannandone solamente gli effetti, assolutamente ricercati.
Ed è così che la narrazione dominante di quegli anni si distorce, diventa incomprensibile, rendendo impossibile anche solo parlare obiettivamente di quelle vicende senza trasformarci in tifosi, dell’una come dell’altra parte. Solo che i tifosi della parte sconfitta sono sempre di meno e sempre più isolati, contro una tifoseria dominante che impedisce ogni possibilità di confronto.
Quelle parti del movimento operaio che decisero di rispondere con la violenza alla violenza dello Stato, altro non fecero che resistere a una repressione che galoppava verso una svolta a destra di tutto il quadro politico nazionale, come poi effettivamente avvenne. E nel resistere, crebbero e si organizzarono, fino a passare dalla mera difesa all’attacco al capitale, padronale o politico che fosse. In questo processo si comprende la vicenda storica delle Brigate Rosse e di tutti gli altri gruppi combattenti di quegli anni. Collettivi che provarono a spingere più avanti un conflitto di classe diffuso e che ormai aveva raggiunto un limite difficilmente superabile, almeno pacificamente. Un consenso sociale e una conflittualità diffusa che costituirono il terreno fertile dal quale nacquero spontaneamente collettivi e gruppi politici che decisero autonomamente una fuga in avanti, visto lo stallo di una situazione che stava portando esattamente la dove poi terminò: al compromesso storico e alla cooptazione di una parte della classe operaia nelle stanze del governo, gestendo e reprimendo congiuntamente quella parte di conflittualità non più funzionale agli scopi politici del PCI.
Le Brigate Rosse furono uno di quei gruppi. Un gruppo nato dalle lotte operaie degli anni sessanta, dalla repressione che ne seguì, ma anche da quelle vittorie parziali che quella conflittualità produsse. Proprio negli anni sessanta, così come nella Resistenza, si intuì che la lotta di classe poteva portare alla vittoria addirittura nel cuore dell’occidente capitalista. Ma soprattutto, una parte di quel mondo degli esclusi, dei contadini poveri, degli operai delle fabbriche, di quei giovani che andavano affollando le periferie delle nuove metropoli, prese coscienza della propria condizione, e la lotta fu l’unico strumento che consentì a questo proletariato di avere voce. Quei contadini eternamente silenziati dal potere acquisirono la capacità di incidere nei processi collettivi solamente grazie al conflitto di classe, alla violenza politica con cui rispondevano alla violenza padronale. La violenza degli anni settanta diede voce ai senza voce. Integrò nella società gli schiavi, i diseredati, tutti coloro che la storia relegava a mere comparse della vicenda umana. La lotta per il comunismo fu anche e soprattutto questo, e all’interno di quest’ottica va letta l’avventura umana e politica di Prospero, un contadino che capì subito da che parte stare, e che altrettanto immediatamente capì che il PCI non era più il luogo dove far valere la propria forza di classe. Nonostante tutti i meriti storici che la Terza Internazionale ancora rappresentava, che né lui né noi oggi vogliamo disconoscere. E infatti è in quel solco che lui si muoveva, nella vicenda storica di quella resistenza tradita che necessitava di una seconda fase, la fase della conquista del potere. Se non era possibile per via elettorale, e se il movimento al di fuori dell’organizzazione ufficiale comunista cresceva e prorompeva nella società, era necessaria una spinta. E proprio in questo senso che nacquero le BR, collettivo politico comunista vera avanguardia di un movimento sociale che fuori, nella legalità, marciava verso il suo punto di non ritorno, dopo il quale ogni scelta doveva essere netta e non equivocabile.
Non vogliamo affermare che la nascita e lo sviluppo delle Brigate Rosse, nonchè degli altri collettivi politici combattenti, costituì l’unica possibile via d’uscita, né che fosse la più giusta, la migliore, la più lungimirante. Più semplicemente, stava nelle cose. Che l’egemonia del movimento operaio covava nel suo seno quello sbocco, che i tempi forse non erano maturi ma neanche lontani, che il consenso intorno all’ipotesi armata era vasto, nel mondo politico dei collettivi come in quello lavorativo delle fabbriche. Una, dieci o cento persone armate possono essere benissimo trattate da criminali e in tal senso affrontate dal potere costituito. Più di cinquemila compagni condannati e carcerati per banda armata* e violenza politica rappresentano qualcosa di più di un “episodio” delinquenziale, ma piuttosto un frammento di guerra civile che da una parte e dall’altra si combatteva senza esclusione di colpi. Perché i familiari delle vittime esistono anche per i compagni, ma nessuno se ne interessa. Il confronto fra familiari “buoni” e i “carnefici” pentiti è un frame dal quale dobbiamo uscire. Perché impedisce il confronto storico, impedisce di liberarci dall’aspetto emozionale a favore di uno sguardo più distaccato (e questo sia detto con tutto il rispetto umano verso i familiari delle vittime borghesi, nonché verso i familiari di Guido Rossa, vittima operaia).
Nell’ambito di questa vera e propria guerra civile, combattuta per vent’anni e vinta dai padroni, lo Stato non faceva prigionieri, e quei pochi che si salvarono, dopo decenni di galera, lo fecero tramite la via del pentimento e della dissociazione. Gli altri, tutti coloro che rimasero coerenti con una idea collettiva della propria militanza politica, pagarono e ancora pagano fino alla fine la propria scelta. E’ per questo che da anni, e ovviamente non da soli, chiediamo una liberazione degli anni settanta. Una liberazione politica, culturale, storica. Che affronti il problema per quello che è: e cioè che, trent’anni fa, due eserciti si scontrarono sul terreno politico e con l’uso della violenza. Lo Stato ha difeso se stesso, e dal suo punto di vista ha sicuramente messo in campo tutto il suo potenziale offensivo. Ma finita la guerra, i prigionieri tornano a casa, i torti e i meriti non vengono affrontati in chiave esclusivamente giuridica, ma di contestualizzazione storica. Per capire e comprendere i motivi di quella scelta, che fu in ogni caso una scelta di massa, di classe, e dirimente. Tutto questo lo Stato borghese non può permetterlo, visto che il monopolio della violenza è il suo e ogni altro atto violento è punito solo in chiave penale. Ma noi, noi compagni, dovremmo in ogni momento riaffermare un altro punto di vista su quella storia. La tragedia di Prospero Gallinari può servire in tal senso. La sua storia, così esemplare, può essere il trampolino di lancio per riprovare a ragione su quegli anni e quelle scelte. Per dare un senso alla sua lotta, che non sia solo il mero ricordo di un rivoluzionario comunista, ma che diventi propositivo per il futuro. Ciao compagno Prospero Gallinari, contadino comunista.
___________________________
* Sulle cifre e le motivazioni politiche e sociali della guerra civile strisciante dal dopoguerra al 1980, consigliamo “Il nemico Interno“, di Cesare Bermani, forse il miglior lavoro storico di ricostruzione e di contestualizzazione della lotta di classe in Italia dopo la Resistenza.