Una prigione a cielo aperto/2
Parte 2: Gaza, siamo arrivati!
Il Sinai corre sotto le ruote dei nostri pullman. Un lungo paesaggio desertico intervallato da pochi villaggi di fango e terra. Un panorama immutabile per quasi quattrocento kilometri, tanto da chiedersi perché una simile regione sia stata nel corso dei secoli palcoscenico di così numerose guerre. La domanda resta inevasa. Il tutto però non è privo di fascino, e il clima tutto sommato gradevole aiuta la nostra traversata. Soprattutto, aiuta il convoglio a superare i vari check point che ci rallentano il viaggio. Il vero problema del convoglio sembra essere quello di passare l’Egitto. Ci fermano almeno quattro volte fra Il Cairo e Rafah, e soprattutto al terzo controllo militare l’attesa diventa estenuante. Tre ore nel deserto, ovviamente senza nessun tipo di servizio. A noi interessa poco, ma la tensione per un probabile diniego militare al nostro passaggio rende l’attesa snervante. Tre ore in mezzo al niente, sabbia ovunque e con il rischio concreto di essere rispediti al Cairo. I militari egiziani non riescono a capire chi siamo, cosa vogliamo, perché vogliamo arrivare a Rafah. Poi qualcosa si muove e ci concedono il lasciapassare. Non capiamo bene cosa, o chi, abbia consentito il nostro proseguimento, ma a noi sta bene così. Meglio non farsi troppe domande in questi casi. Ad ogni modo, mano a mano che superiamo le postazioni militari aumenta il dispiegamento di uomini e mezzi. Da pochi militari male armati finiamo, in prossimità di Rafah, con l’essere accolti da decine di militari, vari mezzi blindati, bunker e artiglieria pesante di contorno. Capiamo velocemente perché Israele ci ha messo meno di una settimana a conquistare tutto il Sinai e arrivare in prossimità del Cairo nella guerra dei sei giorni, ma questi sono altri discorsi.
Insomma, partiti alle 5 di mattina arriviamo a Rafah verso le 18, e qui inizia un’altra lunga attesa per varcare la frontiera. E’ un momento storico, e ognuno di noi sente il peso di quello che sta avvenendo. Settantacinque persone che sfidano l’isolamento di Gaza non è cosa da tutti i giorni, da quelle parti. La prigione in cui stiamo entrando è di massima sorveglianza, niente esce e poco o nulla entra in quella striscia di terra. L’evento è di quelli unici. E infatti, una volta giunto il lasciapassare anche dall’autorità palestinese, l’esplosione di euforia è dirompente, e contagia chiunque vicino a noi; giornalisti, politici, anche le forze dell’ordine palestinesi, tutti gioiscono per un momento che pochi dimenticheranno. Tutti i media palestinesi, la BBC, Al Jazeera, altri attivisti internazionali oltre frontiera, tutti erano lì per il convoglio. Sembrerà una forzatura retorica, però bisognava vedere le facce, i volti, gli sguardi di quelli che ci attendevano al di là del confine per tentare di capire cosa significasse l’ingresso a Gaza da Rafah. Certo, forse nessuno popolo al mondo è più abituato dei palestinesi alla solidarietà internazionale, non era questo evidentemente il punto. Il fatto è che il convoglio è entrato in massa e pacificamente da un valico chiuso da anni. A pochi giorni, neanche un mese, dalla morte di un militante italiano che ha segnato profondamente la politica e la società della Striscia e della Palestina tutta. Insomma, il momento era effettivamente importante, e forse neanche noi possiamo realmente averlo inteso in tutta la sua portata.
Dopo una rapida conferenza stampa dall’altra parte della frontiera, risaliamo sui pullman, diretti a Gaza City. Solo ora ci rendiamo veramente conto: siamo nella striscia di Gaza, siamo in Palestina! E il tutto, senza il timbro israeliano sul passaporto! E’ una forma di riappropriazione della propria autonomia e indipendenza anche questa: accettare o respingere chi entra non in base a ciò che dice Israele, ma in base a ciò che decide il governo palestinese. Anche questo forse sembrerà scontato a noi che abbiamo uno stato, ma vedere l’emozione dei volti palestinesi increduli ci faceva capire quale fosse l’importanza politica di aver passato il valico.
Una prigione a cielo aperto è una metafora scontata: usata ed abusata infinite volte, il più delle quali a sproposito, in questa terra assume appieno tutto il suo valore. Abbiamo pensato a qualcosa che potesse definire lo stato d’occupazione, una metafora, un’immagine, e più ci pensavamo e più ci tornavano alla mente queste poche parole, questa figura retorica inflazionata che però qui rende benissimo l’idea. La striscia di Gaza è larga dai tre ai sei kilometri a seconda del posto, per una lunghezza di cinquanta km scarsi. Per tutto il perimetro è percorsa da un alto muro che delimita il confine con Israele. Un confine invalicabile, con un unico accesso, e cioè il valico di Erez, peraltro perennemente chiuso alle esigenze palestinesi. Non paghi di tutto questo, nel 2009 i sionisti hanno alzato un altro muro. All’interno del territorio palestinese gli israeliani hanno imposto una zona cuscinetto, la “buffer zone”, che dista esattamente un kilometro dal muro, un kilometro lungo tutto il confine. Un rete metallica elettrificata e perennemente sorvegliata dai militari sionisti impedisce ai cittadini gazawi di poter coltivare, o semplicemente accedere, ai terreni presenti nella minuscola striscia. Un ulteriore kilometro mangiato ai già infimi cinque kilometri medi di larghezza della terra di Gaza. Il kilometro più fertile delle già scarse terre palestinesi; zone di coltivazione intensiva il cui arbitrario sequestro ha significato un ulteriore colpo alle già precaria economia delle famiglie gazawi. Se qualcuno prova ad avvicinarsi, viene puntualmente fatto oggetto di esecuzioni mirate da parte dei cecchini sionisti. Come descrivere tutto questo se non come prigione a cielo aperto? Questa delimitazione territoriale illegale vale anche in territorio marino, per cui ai pescatori gazawi è impedito di superare le tre miglia marine, contro le venti miglia concesse a qualunque entità statale del mondo. Venti miglia che erano state garantite anche dagli accordi di Oslo del 1993, ma ignorati a tal punto da veder consentiti ai pescatori della striscia solo 12 miglia di acque territoriali. Negli anni successivi, poi, durante l’intensificarsi delle operazioni di colonizzazione della Striscia da parte di Israele, la milizia sionista – su indicazione del governo centrale di Tel Aviv, fino al 2006 ostaggio dell’infamia di Ariel Sharon – ha ristretto l’accessibilità dei palestinesi alle proprie acque territoriali, arrivando fino alle attuali 3 miglia. Anche qui, chi sfora riceve lo stesso trattamento, e cioè sventagliate di mitra ad altezza d’uomo e vere e proprie esecuzioni mirate di pescatori palestinesi. Non è retorica o rappresentazione amplificata della realtà, ma esattamente ciò che abbiamo potuto constatare con i nostri occhi nella settimana di permanenza nella striscia. Contadini impossibilitati a raccogliere i frutti del proprio lavoro, pescatori costretti a pescare in acque inquinate e prive di pesce addossate alla terraferma; un popolo privato anche della sua mobilità all’interno delle proprie frontiere. Per non dire delle mille privazioni non direttamente vitali, come l’impossibilità per un palestinese di uscire dalla striscia, vedere il mondo, confrontarsi con culture diverse, internazionali, se non dopo mille complicazioni e lungaggini burocratiche stabilite da Israele.
Un viaggio in Palestina fa tornare inevitabilmente meno democratici, meno disposti al confronto, meno tolleranti. Vedere, toccare con mano il dispotismo nei confronti di una popolazione inerme ma non piegata porta a comprendere ogni tipo di scelta politica da parte di questo popolo. Fanno impressione, da qui, le questioni di lana caprina su quale governo sia meglio per Gaza, o quale forma di lotta sia più giusta o più democratica, o semplicemente sconvolga meno le nostre mentalità europee, come se davvero Gaza o la Cisgiordania potessero davvero autodeterminarsi. Ci piace il palestinese che lancia il sasso contro il tank israeliano, ma poi proviamo orrore verso il kamikaze che uccide civili a Tel Aviv, come se non si trattasse della medesima lotta, delle medesime ragioni, dello stesso nemico. E anche quando è evidente che non sono i civili israeliani il nemico quanto piuttosto l’entità statale israeliana, non comprendiamo come sia possibile non capire che la soluzione del problema non è impedire la lotta armata palestinese, ma di porre fine all’illegittimità quotidiana di Israele. Visto da qui il dibattito politico assume tutto un altro sapore; e non stiamo avallando una forma di lotta piuttosto che un’altra, o mettendo tutto sullo stesso piano, ma semplicemente da qui si comprendono cose che è impossibile capire dall’Italia. Quale percezione della realtà, della violenza e del valore della vita e della morte può avere una popolazione in cui ogni singola persona ha un morto nella propria famiglia, fra i propri parenti e amici? Evidentemente, qualcosa di diverso dalla nostra mentalità, dalla nostra ipotetica scala di valori.
Tutto questo è stato evidente dal primo momento in cui abbiamo messo piede a Gaza, sensazione rafforzata giorno dopo giorno, nelle visite agli ospedali bombardati, alle famiglie di contadini impoveriti e in lutto, ai pescatori in crisi, nei campi profughi, nella città di Gaza, che mantiene una sua orgogliosa dignità nonostante tutto. Nelle discussioni coi compagni palestinesi, nelle chiacchierate con la gente comune…eppure la popolazione reagisce. Dopo neanche due anni dalla fine dei bombardamenti la città è quasi tutta ricostruita, i palazzi abbattuti hanno lasciato il posto a nuove costruzioni e i segni delle macerie si contano sulle dita di una mano. La vitalità dei giovani e meno giovani abitanti di Gaza City si tocca con mano, è esemplare, commovente. Dopo una settimana di incontri e di progetti avviati ci siamo resi conto di questo: la gente di Gaza non si arrende, il loro giorno verrà…Inshallah (fine seconda parte, to be continued…)
P.s. Per capire la reazione dei palestinesi al nostro arrivo, leggetevi sta roba…
“Sin dal giorno in cui ho saputo della partenza del convoglio Italiano, non ho fatto altro che pensare all’incontro con gli amici e le amiche di Vittorio. Sognavo il giorno in cui sarebbero arrivati a Gaza: il 12 Maggio… il giorno più lungo per noi, perché io e i miei amici fummo costretti ad aspettare il convoglio nelle nostre case; non ci fu dato il permesso di riceverli al confine di Rafah, né di invitarli nelle nostre case, figurarsi…
Non ci sono parole per esprimere la mia felicità quando ho incontrato questi grandi uomini e donne. Loro sono per me un modello. Il loro amore per Gaza è solo meraviglioso: loro mi hanno insegnato come amare la mia patria, a restare coerente con i miei principi, a continuare a combattere per la libertà e a resistere… a “restare umani”.
La gente di Vittorio, come mi piace chiamarli, ha avuto il coraggio di venire a Gaza per dimostrare a tutto il mondo di non avere paura di andare nel posto dove il loro amico è stato rapito e assassinato. Il loro amore per la Palestina e Gaza è semplicemente incredibile: loro darebbero l’anima per ciascuno di noi!
Questo è stato chiaro quando al confine di Erez tutti loro vollero proseguire ad oltranza per capire ed esporsi ai pericoli a cui tanti Palestinesi sono esposti tutti i giorni. Non solo, hanno voluto provare anche quello che Vittorio era solito fare con altri appartenenti al Movimento di Solidarietà Internazionale a Gaza, come le azioni nei campi, violando le aree della zona cuscinetto, sostenendo contadini e pescatori, partecipando alle manifestazioni per richiamare l’attenzione sui diritti dei Palestinesi.
Ma una delle cose che più ho apprezzato del sentire di questi splendidi Italiani è stato il rispetto della nostra religione, la sue prescrizioni, la nostra tradizione e la nostra cultura. Non volevano in nessun modo causarci difficoltà, si preoccupavano di noi e cercavano in tutti modi di farci capire che non eravamo inferiori a nessuno. Ho avuto l’impressione che fossero delle persone trasparenti, semplici, senza ambizioni, affascinanti. Ognuno di loro aveva qualcosa di speciale che lo distingueva.
Quando dovemmo salutarli, fummo tutti presi da una commozione tale che nessuno di noi potè trattenere le lacrime. Gli uomini piangevano davanti alle donne e tutti cercavamo di consolarci l’un con l’altro: giurammo che presto ci saremmo incontrati tutti di nuovo. Guardavo i loro autobus, come se dovessi tornare a casa con loro. Ho veramente pensato di essere Italiana e che loro fossero diventati Palestinesi!
Questo è il mio messaggio a tutti i membri del convoglio che hanno diviso con noi sofferenza, tristezza, lacrime, gioia, felicità, risate…
“Dal giorno in cui voi siete arrivati, la mia vita è cambiata, perché voi ragazzi e ragazze siete fantastici e salutarci è stato un momento struggente, pieno d’amore, rispetto, speranza. Voi ragazzi e ragazze siete stupendi e indimenticabili, come Vittorio. Non vi dimenticherò mai! Ci incontreremo di nuovo se Dio vuole. Con grande rispetto e amore per voi tutti, miei nuovi amici e amiche Italiane.”
Rewa’ Ahmed da www.vik2gaza.org