Una prigione a cielo aperto/3
Parte III: un sogno di 63 anni.
“Palestina è un sogno che non può essere sussurrato; se non lo gridi che sogno è?”. Tra le prime battute che abbiamo scambiato con i nostri compagni di Gaza, questa frase ci è sembrata una delle più esaurienti tra quelle che indagavano l’odierno significato della lotta per una Palestina libera. Non una frase da circostanza, come spesso può accadere laddove la lotta politica è una condizione di vita part-time talvolta escludibile, emarginabile, magari perché si è scelto di passare la serata in un campo di calcetto o facendo una passeggiata in centro. In Palestina, a Gaza, non è così. La lotta e l’unità nella lotta sono ingredienti che aiutano a crescere, anche troppo in fretta, perché di soluzioni mediane, diplomatiche, vien da ridere solo a parlarne.
Non ci siamo stupiti, allora, nel vedere in maggioranza ragazzi tra i 12 e 16 anni manifestare con noi il 15 maggio, 63esimo anniversario della Naqba – il giorno della tragedia palestinese, ovvero della proclamazione nel 1948 dello Stato d’Israele -, forse il giorno politicamente più forte ed intenso vissuto dal convoglio di internazionalisti che erano riusciti a valicare i confini di Rafah. Una giornata che era già iniziata con una forte emozione per la commemorazione di Vittorio al porto di Gaza; la commemorazione ad un mese dalla sua uccisione, nel porto che lo ha visto attraccare nel 2008, dove ancora oggi è ormeggiata la barca Oliva con la quale Vittorio ed i suoi compagni erano decisi a lanciare un piano di solidarietà con la federazione dei pescatori gazawi per arginare la prevaricazione sionista nelle acque palestinesi. Il 15 maggio non è un giorno come gli altri: la gente si riversa nelle strade, ci si dirige in massa verso il confine nord-est di Erez, si manifesta a ridosso della buffer zone sfidando la barbarie delle truppe di confine; la giusta rabbia scende in piazza a commemorare una ferita ancora aperta della propria storia.
Il nostro 15 maggio è stata una miscellanea di fattori: altalene di emozioni, momenti di gioia e attimi di paure, aria di tensione, di angoscia, nonostante la lingua d’asfalto che portava alle cancellate del confine non presentasse tensioni visibili, palpabili. Il nostro 15 maggio, politicamente, è stata un’esperienza dall’alto valore simbolico; non solo per la presenza – ribadiamolo – di un corpo vivo internazionale, ma anche e soprattutto per il nuovo contesto politico in cui l’intera popolazione palestinese (ed in particolare dei palestinesi di Gaza) è scesa unitamente nelle piazze. Si era da poco assistito, infatti, alla consacrazione di un nuovo clima di riconciliazione, dovuto all’accordo stipulato a Il Cairo tra Hamas e Al-Fatah (4maggio); un evento che ha sensibilmente cambiato l’assetto della geopolitica mediorientale se letto in continuità con la “primavera araba” di inizio anno e con la nuova immagine della Palestina che è potuta filtrare all’esterno. Secondo noi, infatti, questo è un punto fondamentale da mettere in evidenza. Non perché ci troviamo oggi a parteggiare per una delle due fazioni che negli ultimi hanno insanguinato la Striscia con una guerra fratricida; bensì perché consci di come questa lunga resa dei conti abbia in qualche modo inficiato la diffusione e la sensibilizzazione sulla causa palestinese: un vero e proprio ostacolo alla propaganda del reale volto di Gaza e della Palestina tutta, un’immagine predominante che ha oscurato la politica e la lotta dal basso che invece dava il senso vero di una vita vissuta sotto l’assedio dell’imperialismo sionista.
Una lotta che abbiamo avuto modo comunque di conoscere attraverso il contatto continuo, il confronto e la forza dei nostri compagni, di sicuro il nuovo sangue che lotta attraverso nelle arterie della Striscia; con loro abbiamo vissuto lo storico momento dell’invasione della buffer zone, momenti di discussione,di confronto su come gruppi di giovani autorganizzati siano schiacciati nella morsa di un’autorità governativa che, per quanto scelta e legittimata dalla popolazione stessa di Gaza, appare atrofizzata e poco incline ad un progressismo come lo intendiamo noi. Questo non per sminuire il ruolo che oggigiorno alcune forze politiche “storiche” (pensiamo ad esempio all’esperienza del FPLP) rivestono, ma semplicemente per evidenziare come la necessità di veicolare il messaggio di lotta non sia più esclusivo appannaggio di un establishment politico “di rango”, bensì sia un dovere morale cui l’intero popolo palestinese assolve con uno sforzo corale.
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Quando ancora oggi amici e familiari ci chiedono cosa c’abbia lasciato in eredità l’esperienza di Gaza, non sempre riusciamo a rispondere di getto; e forse non sempre rispondiamo la stessa cosa detta in precedenza. Non ce ne vogliate e non fatene una questione di coerenza, ma la Palestina è prima di tutto uno sguardo d’insieme che non capita di cogliere spesso; assaporarne i sapori contrastanti e respirarne l’aria a tratti soffocante, sono stati momenti cui oggi sorridiamo amaramente di rimando mentre marchiano a fuoco i nostri cuori. (fine terza parte, to be continued…)