Una prigione a cielo aperto/4
Parte 4: ciò che ci portiamo dietro, ciò che ci lasciamo alle spalle
Ieri sono stati uccisi altri venti palestinesi, mentre 225 sono stati feriti con armi da fuoco. La solita routine, potrebbe dire un palestinese, i soliti morti. Altri lutti, nel silenzio più o meno colluso dei media con lo stato genocida israeliano. Un silenzio colpevole non perché la notizia sia stata ignorata, ma perché si offuscano torti e ragioni, perché viene presentato tutto in un quadro privo di punti di riferimento. I palestinesi muoiono, ma in fondo se la sono cercata; Israele uccide, ma in fondo ha diritto di difendersi dai terroristi. Torti e ragioni vengono mischiate in un unico calderone fatto di ovvietà, frasi fatte, solidarietà pelose e via dicendo. Invece, mentre a Milano si inaugura il 12 Giugno la settimana per Israele (!?), infuria il dibattito sugli accordi di pace: territori palestinesi smilitarizzati, processo all’ONU, reo di aver voluto (subito richiamato all’ordine dal pacifista Obama) addirittura riconoscere uno stato palestinese, cessione di Gerusalemme a Israele, ecc. Poi, per dimostrare la loro umanità, alcuni – non tutti e neanche la maggior parte – territori occupati abusivamente dai coloni israeliani verrebbero lasciati all’ipotetico stato palestinese, territori conquistati dopo il 1967 e nel frattempo man mano ampliati, ingigantiti, come un cancro che lentamente strappa margini di territorio (anche se Netanyahu ha espresso a più riprese la sua assoluta contrarietà, figurarsi).
Finchè il “processodipace” partirà dagli errori palestinesi e non dalle responsabilità israeliane, sarà impossibile uscirne. E’ un’evidenza che sanno tutti, dall’ONU agli U.S.A. all’Europa. Colpevolizzare l’assediato, il popolo occupato, di non essere in grado di aspirare ad una libertà è un concetto talmente privo di senso a cui ovviamente nessuno crede sinceramente. Ma questa è l’imposizione internazionale, e buona parte dell’opinione pubblica ne è ormai assuefatta.
Difficile vedere un qualche tipo di risoluzione dignitosa del conflitto in questa vita. Ce ne siamo resi conto direttamente a Gaza. Nonostante la presa diretta della dignità e della sofferenza del popolo gazawi, ci è risultato un po’ difficile poter concepire un esistenza perennemente sotto l’occhio del padrone. Tanto per fare un esempio, sopra Gaza staziona fisso un pallone aerostatico munito di super telecamera che entra dentro le case, spia in ogni angolo della striscia, sempre pronto a comunicare l’ordine d’attacco, o l’esecuzione mirata. Un enorme occhio che fa sentire sempre presente l’assedio. Fa un po’ sorridere, per noi che ci lamentavamo di Echelon e dei cellulari che registrano i nostri movimenti, o del Tom Tom che potrebbe fornire informazioni alle forze dell’ordine circa i nostri spostamenti.
Difficile, forse impossibile, cercare di comprendere cosa possa provare intimamente un palestinese. Torniamo a Roma ovviamente più consci di quello che succede in quella terra, ma dire di aver compreso no, questo non possiamo affermarlo con sicurezza. Ci portiamo dietro un senso di ingiustizia che ci rende insofferenti ai ragionamenti, come già abbiamo detto. Difficile tornare più aperti al confronto dopo aver subito una seppur minima vita da assediato. Torniamo meno democratici noi, immaginatevi coloro che vivono quotidianamente l’oppressione sulla propria pelle, senza biglietto di ritorno in tasca, senza passaporto europeo nel portafoglio.
Ci lasciamo alle spalle invece gli occhi e i volti di un popolo che, nonostante tutto, conserva una propria dignità. Impresa non facile, evidentemente. Riuscire a vivere una propria esistenza nella normalità è compito che non riusciamo neanche ad immaginare. Eppure i ragazzi di Gaza riescono a divertirsi, a non perdere quella voglia di vivere che sarebbe la fine di tutto. Basterebbe farsi un giro in qualche altro paese del terzo mondo per capire che non è una cosa così scontata, e che anzi lasciarsi andare, lasciarsi scorrere la vita addosso è più facile di lottare quotidianamente per la propria libertà. I Gazawi ci riescono, e questa è la cosa più bella e importante che ci portiamo dietro: questo desiderio di ribellione che non viene fiaccato neanche dalla più feroce delle oppressioni politiche e militari. Ci servirà sicuramente di lezione. Fine.
P.S. Qui sotto, il manifesto della mobilitazione nazionale a Milano sabato 18 Giugno, ore 15.00, contro l’occupazione israeliana del centro di Milano. E’ ancora in fieri, noi in ogni caso ci saremo!