visioni militant(i)
“L’hai visto Diaz?”, “ma tu che ne pensi?”, “si però hai letto che ha scritto Agnoletto?”… E’ inutile negare che in questi giorni, sondando un po’ di compagni, si sia respirata, prima ancora che uscisse nelle sale, più di qualche perplessità intorno all’ultimo lavoro di Daniele Vicari. Visto che invece a noi nonostante alcuni limiti il film è piaciuto, e non poco, vorremmo provare a spiegarne i motivi. Vicari sceglie di raccontare quanto accadde durante quei fatidici tre giorni del luglio 2001 concentrandosi sull’assalto della scuola Diaz e sulle torture inflitte agli arrestati nella caserma di Bolzaneto, dedicando oggettivamente poco spazio alle manifestazioni che precedettero quegli eventi e all’omicidio di Carlo. Più di qualcuno ha mosso le sue critiche partendo proprio da questa scelta paventando così un rischio di “decontestualizzazione”, un ragionamento che sinceramente non ci trova d’accordo per tutta una serie di ragioni. Su tutte il fatto che, sembrerà un’ovvietà ma forse ogni tanto occorre ricordarlo, un film è… un film. Ed ha pertanto i suoi linguaggi ed i suoi tempi che lo rendono un oggetto narrativo peculiare rispetto ad altre forme espressive come ad esempio un documentario, una fiction o un reportage. E sono proprio questa immediatezza e questa fruibilità a renderlo un media così potente. Chiedere ad una pellicola di un’ora e mezza l’esaustività di un saggio politico sarebbe come chiedere ad un romanzo storico la completezza di un tomo universitario. Immaginatevi se Elsa Morante nello scrivere “La storia” avesse dovuto parlare non solo di Ida, Useppe e Nino, ma anche di tutte le ragioni economiche, sociali e politiche che determinarono lo scoppio della seconda guerra mondiale o l’avvento del fascismo… sai che polpettone indigeribile ne sarebbe venuto fuori. Bisognerebbe dunque chiedersi se l’inevitabile parzialità su cui Vicari ha scelto di puntare la telecamera sia, di per se, significativa. E secondo noi lo è. Immaginiamo che dovendo affrontare una questione come questa il regista si sia trovato di fronte a due possibilità: optare per un film “a tesi” ed assumersi così il compito di spiegare il perché di quello che è successo la notte del 21 luglio, oppure raccontare il più oggettivamente possibile i fatti lasciando questo onere allo spettatore, e ci sembra evidente che la strada imboccata dal regista sia stata proprio quest’ultima. Attraverso un film corale giocato sui flashback dei diversi protagonisti che per un ragione o per l’altra finiranno per passare la notte alla Diaz lo spettatore assisterà alla brutalità di 300 bestie in divisa che si accaniscono contro dei civili inermi. Per chi quei giorni li ha vissuti oppure per un compagno che fa politica tutto questo potrà sembrare anche ovvio, ma immaginiamo quale effetto dirompente possano avere quelle sequenze per lo “spettatore medio” cloroformizzato da decenni di angelizzazione mediatica delle cosiddette forze dell’ordine. E qui sta uno dei meriti enormi del film. Altro che Maresciallo Rocca, altro che Decimo distretto, altro che Squadra di Polizia, altro che ACAB… nel film di Vicari non si salva nessuno. Non ci sono “mele marce” da togliere dalla cesta, sono tutti marci, sono tutti macellai, soprattutto chi li comanda. Anche Santamaria, che veste i panni del vicequestore Fournier e che mostrerà qualche perplessità sulle regole d’ingaggio adottate, alla fine ne esce fuori come un ignavo, un pavido che gira con la maglietta della Folgore e che di fronte alle urla dei torturati abbassa la testa e fa finta di niente. E sinceramente poco importa se, come scrive sempre Agnoletto, nella descrizione della catena di comando non emerge la figura di De Gennaro o se durante le riprese il produttore abbia mandato il copione al capo della Polizia. A nostra memoria non c’era mai capitato di vedere il potere esecutivo dello Stato descritto in questi termini, svelato nella sua faccia più brutale. Quella vera. Con uno stile asciutto e per nulla reticente Vicari non “allude”, non “lascia intuire”, ma decide di mostrare tutto. Le sequenze sulle torture e le umiliazioni a Bolzaneto sono pugni nello stomaco che fanno salire un odio che non può e non deve spegnersi. Soprattutto in un Paese che fra due anni vedrà queste bestie tutte prescritte confermando come da tradizione che lo stato non può che assolvere se stesso. Sempre Agnoletto nella sua recensione sul Manifesto (leggi) ha fatto poi notare che nel film mancherebbero i nomi dei politici “mandanti” (Fini, Calderoli, ecc). Sinceramente questa ci sembra la mancanza meno significativa e l’averla sollevata mostra quanto, a distanza di 11 anni, il buon Agnoletto non abbia ancora capito un cazzo di quel che successe a Genova. Pensare che un governo in carica da poche settimane potesse allestire un’operazione di tal fatta significa essere inetti o in mala fede, quindi per onestà intellettuale a quella lista andrebbero quantomeno aggiunti i nomi di chi governò l’Italia negli anni precedenti (D’Alema, Amato, Fassino, Bianco, Diliberto e il suo G.O.M. ecc. ecc.). Ma anche in tal caso ne verrebbe fuori una lettura piuttosto provinciale ed “italocentrica” che spiega davvero poco di quei fatti. A meno che non si voglia credere che quello fu un un ritorno al passato ordito da qualche revanscista nostrano e non un passaggio verso una ridefinizione anche militare del ruolo dello Stato nei confronti del “nemico interno”. Senza soffermarci troppo su questo aspetto che ci porterebbe troppo lontano crediamo che fu anche l’incapacità del GSF di cogliere quanto stava avvenendo e di leggere la fase a consegnare migliaia di persone inermi alla mattanza di Stato, dunque se fossimo in Agnoletto come in molti altri che di quel movimento si fecero dirigenti di Genova eviteremmo anche solo di parlare, vista la responsabilità che portano sulle spalle. Cosi come eviteremmo di accusare qualcuno di essere commerciale e poi promuovere il proprio libro nello stesso articolo. Tornando al film crediamo quindi che fatta eccezione per alcuni passaggi che proprio non ci convincono, come la lettura della questione “black bloc”, DIAZ meriti proprio d’essere visto e, possibilmente, discusso.