Visioni Militant(i): Fuocoammare, di Gianfranco Rosi
L’ultimo film-documentario di Gianfranco Rosi ha suscitato grandi apprezzamenti della critica e molte discussioni in una parte della sinistra che, per una volta, non ha raccolto disarmata l’ultima “novità artistica” mainstream ma anzi ha posto dei dubbi sul reale valore di un’opera controversa. E controverso questo film lo è davvero. Da una parte va riconosciuta la capacità del regista di catturare momenti di quotidianità attraverso un linguaggio artistico notevole. Dall’altra, questo film sintetizza egregiamente tutti i limiti della cinematografia europea attuale, che sono limiti culturali e non tecnici. Esattamente come Sacro Gra, Rosi evita di narrare una storia, ma vorrebbe limitarsi a descrivere dei momenti di vita quotidiana inseriti in un contesto particolare che, nelle intenzioni del regista, dovrebbe racchiudere il senso di quelle stesse vite che prendono forma nella pellicola. Le piccole storie degli abitanti attorno al Raccordo anulare non avevano nulla in comune tra loro e nulla in comune col Gra, ma questo avrebbe dovuto costituire il filo narrativo, la cornice, capace di collegarle le une alle altre. In questo Fuocoammare le vicende del ragazzino, del medico, dei migranti, del pescatore subacqueo, dovrebbero essere tenute insieme dall’isola di Lampedusa, contenitore geografico che, grazie alla sua involontaria centralità acquisita dalla questione migrante, diviene contenuto. Eppure tutto procede in modo ambiguo. Non c’è nessun filo in grado di contenere queste storie, ma soprattutto non c’è alcun senso al quale ricondurle. Non c’è sofferenza, non c’è lotta, non c’è rancore, non c’è felicità: si percepisce solo una nota di rassegnazione esistenziale verso un destino subito (tanto dai migranti quanto dai residenti di Lampedusa), mai davvero nelle proprie mani, proprio come in Sacro Gra. Questo cinema, francamente, ha rotto le palle. Questa cultura ambigua, debole, priva di scopo, incapace di prendere posizione, di dare un significato all’esistente, contribuisce alla perdita d’orientamento di fronte la contemporaneità, dove non si è più in grado di distinguere il giusto dal sbagliato, le ragioni dai torti, lo sfruttato dallo sfruttatore, l’etica dall’anti-eticità, e via dicendo. Non è un cinema di denuncia quello di Rosi, ma proprio per questo non va confuso con forme di realismo poetico, che invece hanno come fondamento lo smascheramento delle condizioni materiali di vita della società. Non c’è alcun dis-velamento nell’operazione falsamente neo-neorealista del regista, perché Rosi non ha intenzione di “svelare” alcunché, quanto semmai limitarsi all’estremo soggettivismo dei suoi casuali protagonisti slegati da ogni orizzonte di senso. Questo dato è talmente plateale che infatti è stato colto da tanta parte di quella sinistra partita con un’aspettativa tradita nel corso del film. Ovviamente con questo non intendiamo dire che Rosi avrebbe dovuto, al contrario, produrre qualche immane boiata pacificante, cosa questa ben peggiore del suo documentario privo di senso. Il campo è scivoloso, e non a caso ci sembra mancare ancora oggi una grande opera d’arte sul fenomeno delle migrazioni, almeno per ciò che riguarda il Mediterraneo. E qui torniamo ai limiti culturali del nostro tempo, diviso tra rassegnazione al presente o autonarrazioni consolanti del proprio dover essere. Se un evento epocale come le migrazioni di massa dal Maghreb, dal Medioriente e dall’Africa sub-sahariana non hanno ancora trovato il linguaggio artistico capace di raccontarle davvero, non è solo dovuto alla penuria di artisti – che pure ci sarebbero – ma da un certo “spirito dei tempi” che impone l’ambiguità come segno distintivo del presente. Non è un caso che il film ha vinto al Festival di Berlino proprio come Sacro Gra aveva vinto a Venezia: è lo spirito dei tempi che detta i riconoscimenti. Di Fuocoammare può essere salvato lo stimolo a guardare al fenomeno migrante senza gli occhiali deformanti della destra reazionaria e razzista o della sinistra dirittoumanista (fino a un certo punto però). Può essere salvata l’opera di sensibilizzazione che un film come questo, volente o meno, produce nella cultura mainstream e di conseguenza in certa opinione pubblica. Tutto ciò è sicuramente benvenuto, non va neanche minimizzato. Ma va rigettato, a nostro modo di vedere, il feticismo documentaristico che è uno dei codici artistici egemoni attualmente, il tentativo cioè di raccontare fenomeni complessi attraverso l’iper-soggettivismo che sostituisce la “narrazione” con la “descrizione”, pretendendo attraverso questo meccanismo truffaldino di tornare a presunte oggettività in realtà completamente deformate. Attraverso l’abuso individualizzante e soggettivistico di queste descrizioni post-moderne non nascerà alcuna oggettivazioni dei problemi sociali della contemporaneità, ma solo confusione e perdita di senso. Non è certo tutta colpa di Rosi, ma di fronte a lavori del genere ben venga l’immediato sospetto di chi non riesce a cogliere il significato di ciò che sta vedendo.