Visioni Militant(i): Il primo Re, di Matteo Rovere
E’ da tempo che al cinema l’incontro tra uomo e natura delude. Non staremo a ricordare la sequela hollywoodiana di promesse mancate: da un ventennio abbondante ogni qual volta si è provato a raccontare del rapporto tragico tra l’uomo e l’ambiente ostile, ci si è affacciati sulla soglia e ci si è ritirati di buon ordine nel rimasticamento di temi già abusati e ridotti a consumo di massa. Certo non staremo qui a pretendere un nuovo Dersu Uzala, ma tra questo e le diverse gradazioni di Revenant ci sarà pure una via di mezzo (dalle parti di Balla coi lupi, per dire, il cinema hollywoodiano potrebbe ancora attestarsi, vedasi il New world di Malick). Ci prova inaspettatamente un italiano stavolta, ed è una novità: il costo di tali operazioni è fuori portata, in genere, per le nostre produzioni impotenti. Per di più, Rovere affronta il mito italico per eccellenza: la fondazione di Roma. Mitologia curiosamente dimenticata sia dal peplum che dal nostro cinema. La scommessa è ardita allora, così come (ogni volta) la curiosità suscitata. Romolo e Remo dunque.
Sulla vicenda in sé bisognerebbe avere competenze specifiche in materia, quindi è per noi difficilmente giudicabile il rapporto tra verità e finzione nella rilettura del mito fondativo. I due fratelli pastori vengono travolti da una piena (uno tsunami fumettistico più che altro) del Tevere. Si ritrovano prigionieri ad Alba, e in procinto di essere sacrificati agli dei. Si ribellano, uccidono i soldati nemici, si danno alla fuga in una decina per i boschi alla ricerca del fiume dove trovare nuovamente libertà (sembrerebbe un Apocalypto collettivo). Nel passaggio nel bosco – una selva oscura che funziona però da purgatorio – gli animi si corrodono, gli istinti umani e animali si confondono, ma alla fine Remo riuscirà a tenere unito – con pugno di ferro – il gruppo, sconfiggendo altri nemici e giungendo infine sulle sponde del Tevere. Nel frattempo, la tracotanza del nuovo Re, che sceglierà di non sottomettersi al volere degli dei, verrà punita, secondo profezia, per mano del fratello. Romolo, seppellendo il fratello sulle pendici del Palatino, fonderà Roma e darà vita alla nostra storia.
Va ricordato, quantomeno, l’uso accorto del latino arcaico: poche parole, persino troppe pensando a un gruppo di pastori lontani dal processo di civilizzazione che altrove aveva già fatto la sua comparsa, che vogliono sottolineare l’aderenza a un contesto in cui vengono fusi realismo e mitologia. Tutto è mito, dunque finzione, ma allo stesso tempo questa stessa finzione ha bisogno di collegarsi a motivi reali, materiali, per farsi davvero narrazione sacralizzata, per di più posta a fondamento del fatto storico per eccellenza (per la civiltà antica): Roma. E va tenuto in debita considerazione almeno un altro particolare: tutto è girato in esterna e con luce naturale.
Se dunque nello specifico bisognerebbe attendere critiche più dettagliate e chiarificatrici (non solo sul mito in sé, ma anche sul quadro etnologico che un film come questo implica fortemente), possiamo comunque attenerci al film, alle sue promesse, al suo svolgimento, alla realtà che rappresenta. Forti delle delusioni di cui sopra, bisogna ammettere questo: il film si trattiene dal rovinare inevitabilmente verso la farsa. La violenza – tema centrale della storia – è giustamente mostrata ma sempre governata. Il problema non è impressionare lo spettatore ma fornirgli una minima attinenza con la realtà antica. La parte centrale del racconto avviene nel bosco. E’ qui che prendono forma i motivi decisivi. La natura dell’uomo, in un ambiente che tende alla ferinità e quindi alla perdita di limes tra uomo e natura; il rapporto tra il regno e il governo o, come direbbe Agamben, tra politica ed economia, tra il regno e la gloria: in altri termini, tra il nuovo Re, Remo, e gli dei, fonte di legittimazione del potere terreno. Un rapporto che Remo rifiuta e, proprio per questo, la piccola e nuova società da lui presieduta entra subito in crisi, una crisi da cui nascerà, catarticamente e tramite la morte per mano dello stesso sangue, una nuova storia. Certamente la quantità e profondità di tali temi esondano le possibilità dell’attuale cinema italiano. Gli accenni rimangono tali. Però, è possibile davvero lamentarsene oggi? Bisogna forse arrendersi e rispondere di no. Bisogna riconoscere a Matteo Rovere di aver saputo dare forma non stereotipata ad un racconto ad alto rischio di confusione. Non c’è poesia, forse l’unico strumento in grado di restituire la complessità del mito evitando la trappola del corpo a corpo con la storia (quale storia poi? Epica, piuttosto, da cui trarne un’essenza che poi dovrebbe svelare l’ethos di un popolo). C’è un racconto che si vuole veristico e che rimane, per l’appunto, tale (il realismo è altrove). Però, ecco, oggi è così. Il film non è banale, il contesto culturale non permette molto altro, il tentativo era rischiosissimo. Un punto di partenza utile a ragionare su nuovi eventuali passaggi. Passaggi che però verranno puntualmente mancati.