Visioni Militant(i): Perfetti sconosciuti, di Paolo Genovese
Buoni ultimi, fa piacere anche a noi commentare questo film che “ha messo d’accordo pubblico e critica”, come suol dirsi in questi casi, cosa questa ormai entrata nella norma visto il progressivo arretramento della funzione della critica artistica in favore degli umori del pubblico (e delle case di produzione e/o letterarie). Il film di Paolo Genovese consente però alcune riflessioni su una certa tipologia di cinema italiano e sui suoi attori. Eviteremo di ricordarne la trama, visto il successo del film, i suoi record di spettatori, eccetera. Il film ci sembra rientrare in quel genere molto in voga di questi tempi, una sorta di nuova raffinata commedia all’italiana, da non confondersi con le porcherie alla Zalone e epigoni. Un filone recentemente cavalcato da un gruppo di attori e di registi abbastanza definito, che si sta ritagliando uno spazio lasciato libero e che in altri paesi, soprattutto in Francia, già da anni sforna film leggeri ma di qualità superiore alla media della truce comicità destinata a riempire i palinsesti delle multisala dentro i centri commerciali.
A differenza di moltissime operazioni simili, il film si regge su di una sceneggiatura forte, precisa, coerente, che è la prima e più importante caratteristica che salta all’occhio. Una vera novità, abituati alle sceneggiature deboli, irreali o fumettistiche che contraddistinguono in genere queste operazioni. Non solo la sceneggiatura però. Anche i dialoghi e la messa in scena reggono al confronto con la realtà. Stiamo parlando di un film senza pretese di prendersi troppo sul serio, e questa sincerità viene ripagata da un racconto che scorre senza intoppi. Viene sorretto anche da un finale per nulla scontato o artificiale, e anche questa ci sembra una novità nel genere in questione, dove spesso le buone intenzioni del “primo tempo” vengono dilapidate nei fantasiosi finali progressivamente trash. Insomma, nell’ambito di un lavoro leggero e senza presunzione, si intravede un impegno di scrittura fuori dal canone, ed è una novità rilevante, perché in assenza di “cinema d’autore” o di “venerati maestri”, la scrittura sostiene ciò che non riesce alla macchina da presa, che si “accontenta” del minimo indispensabile, senza strafare. Senza sceneggiatura all’altezza, oltretutto, un film girato tutto dentro uno stanza non avrebbe potuto reggersi.
Il tema trattato non è di per sé una novità, ma al tempo stesso ci sembra la prima volta che viene preso di petto, e non stupisce allora l’enorme richiesta internazionale di possibili remake. L’intuizione era dunque valida. Mettere in luce la finzione che nascondono le nostre vite è un topos letterario e cinematografico, ma farlo attraverso lo smascheramento determinato dall’oggetto cellulare non è poi così banale, sebbene stia diventando questo un altro luogo comune: gli smartphone vanno assumendo il ruolo di “scatole nere” della nostra esistenza, racchiudendo quella verità mascherata o “aggiustata” nella realtà e nei rapporti con le persone. Potrebbe anche questa essere una sorta di mistificazione, ma non c’è dubbio che la realtà virtuale che progressivamente sostituisce il nostro bisogno (indotto?) di autorappresentazione sia un problema non soltanto psicologico o sociologico, ma anche – e forse soprattutto, dal nostro punto di vista – politico. E’ una forma di controllo, che scardina la dimensione politica del soggetto in favore di una voyeurizzazione consumistica di sé che sta producendo mostri sociali. Questioni comunque ancora aperte e in fase di studio e riflessione.
Il film però non pretende tanto. Come detto, si tratta di un “filmetto” che occupa – e ci riesce benissimo – quel campo che dovrebbe costituire il “grosso” della produzione filmica italiana. Quella sorta di medietà artistica che non ha ambizioni spropositate, perché in buona sostanza non ne ha le capacità, ma che non si arrende all’incultura del bagaglino cinematografico. Quello che davvero manca in Italia, invece, è il rischio delle operazioni “alte”, il cinema d’autore non parossistico. Tentativi e film riusciti, in questo senso, continuano pure ad esserci, ma troppo pochi, troppo poco sorretti dalle produzioni, non facilitati da critica, pubblico (figuriamoci) e politica (men che meno).
In chiusura, una nota sugli attori, tutti molto bravi. Marco Giallini su tutti, e non da oggi. Però, anche qui, bisognerebbe fare attenzione a non trascendere con gli entusiasmi attorno a questo gruppo di attori molto affiatato e molto capace nel compito che si è ritagliato. Detto della loro bravura, manca il tentativo (o la voglia?) di cimentarsi con operazioni più elevate, tentare, perché no? il salto di qualità. Mettersi in gioco con interpretazioni che travalichino il confine della facile, ancorché intelligente, commedia rincuorante, per cimentarsi con lavori seri e interpretazioni rischiose ma finalmente elevate. Manca, è vero, un cinema adeguato, che sappia supportare tentativi coraggiosi, ma rinchiusi nel genere leggero rischiano di tramutarsi in cliché, in caratteristi molto bravi ma dall’orizzonte ristretto, difficile da giudicare. Marco Giallini meriterebbe il “grande film”, così come Giuseppe Battiston e Valerio Mastandrea (che nel tempo ci ha provato più di tutti), e che però sconta ancora l’infame interpretazione del commissario Luigi Calabresi nel Romanzo di una strage. Se l’interpretazione “seria” deve servire a coprire operazioni di revisionismo storico e politico, meglio un’altra commedia defatigante.